Mi si stavano congelando le orecchie a Praga quando dal finestrino del tram numero 14 sono riuscita a scorgere un cartello con un orsetto Misha che imbracciava un Kalashnikov. Mi è subito venuta a mente quella icona dei Giochi Olimpici di Mosca del 1980 e tutta la serie di cartoni animati di cui subito dopo è stato protagonista. Erano i tempi in cui noi bambini cubani sapevamo più cose della tundra russa che dei campi del nostro paese, conoscevamo meglio i lupi rispetto ai roditori che popolano i campi di canna da zucchero, vedevamo più mele che arance. Era l’epoca in cui il Cremlino faceva sentire la sua costante presenza sulle nostre vite, con soldati e tecnici inviati da migliaia di chilometri di distanza, ma anche con un sussidio così generoso da consentire sperperi memorabili da parte di Fidel Castro. Tutto questo ha attraversato la mia mente in un secondo mentre leggevo l’annuncio di una singolare mostra che prometteva un viaggio nel passato attraverso l’estetica promossa dall’URSS.
Con il tempo contato, come ogni giorno trascorso nella Repubblica Ceca, mi sono recata al numero 10 di Na Prikope decisa a dare un’occhiata al museo. La prima sorpresa l’ho avuta all’ingresso, quando la donna che vendeva i biglietti è stata così cortese da lasciarmi passare gratis, perché – mi ha spiegato – provenivo da Cuba. Data la vicinanza degli oggetti contenuti in quelle sale con la mia realtà, avevo diritto a una visita omaggio, perché in fin dei conti avrei fatto soltanto un viaggio nel mio quotidiano. Perché avrei dovuto pagare per vedere cose che fanno parte del mio mondo? In realtà è stato proprio così. Percepivo meraviglia e sorrisi negli altri visitatori, mentre guardavo quelle bandiere rosse, ascoltavo l’inno dell’Internazionale e osservavo le statue in pose gloriose, con una familiarità a prova di stupore. Era come vedere esposti gli utensili della mia cucina o la biancheria intima che conservo nel cassetto. In realtà, niente di quel che vedevo poteva essere per me un oggetto da museo, visto che nel mio scenario consueto certi oggetti, modi di dire e di presentare un’immagine sono ancora presenti. Un viaggio nel consueto, un’escursione tra cose conosciute e tante volte sperimentate. Un museo del passato, per questa viaggiatrice proveniente da un identico tempo remoto.
Tuttavia, la vicinanza con quel che vedi non sempre ti fa sentire a tuo agio. Per questo motivo, mano a mano che procedevo nel percorso, mi sentivo mancare l’aria. Le medaglie, il contadino con il pugno alzato e le orribili scatole di conserve con etichette anonime. Tutto intorno a me ha contribuito a farmi venire un prurito che è partito dal volto per estendersi al resto del corpo. Erano trascorse solo due settimane dalla mia partenza da Cuba, ma già percepivo un’evidente allergia nei confronti di certe cose. In quel museo c’erano anche le uniformi militari con il tipico cappello che i nostri ufficiali hanno indossato per decenni. I distintivi per i lavoratori migliori e le medaglie per i soldati morti in guerra, così identiche a quelle che vengono elargite nel nostro paese, che ho dovuto guardarle diverse volte per sincerarmi che non mostrassero la scritta “Repubblica di Cuba”, invece che “URSS” o “RDA”.
In questa maniera, avanzando tra manifesti scritti nel peggiore stile del realismo socialista, sono arrivata davanti alla riproduzione di un ufficio del KGB. Il telefono rozzo, gli archivi metallici, i cassetti etichettati con una lettera che contenevano i cartellini. Piccole cartoline ingiallite dal tempo con i nomi delle persone sorvegliate. Era il catalogo dei cittadini scomodi, dei critici e di coloro che un tempo sono stati nel mirino della polizia politica. Ho avuto la tentazione di cercare la “Y” per frugare tra le tessere a caccia di un nome. Ma proprio in quel momento l’asfissia provocata da quel Museo del Comunismo ha raggiunto livelli insopportabili. Sono dovuta correre in strada, a prendere una boccata d’aria fredda e libera di Praga.
Yoani Sánchez
(dal Blog Cuba Libre, El País, 11 marzo 2013)
Traduzione di Gordiano Lupi