Quando si capì che nonno non si sarebbe ripreso, mamma riempì un vassoio con tre tipi di pasta e glielo portò a letto.
Nonno aveva aperto gli occhi, aveva sorriso ed era rimasto a guardare qualcosa che vedeva solo lui e che cercava di afferrare con le mani. Provava e riprovava, cercando di sollevare la testa dal cuscino per seguire i movimenti di quella cosa che doveva trovarsi sulla parete di fronte al letto, sulla quale batteva il sole. Poi con un grande sforzo disse: – Violetta, – e tutti pensammo che credeva di trovarsi all’ippodromo pronto per la partenza, con la sua cavalla bianca purosangue che l’aveva portato sempre alla vittoria.
La cavalla nonno l’aveva vinta con una scommessa, giocandosi la casa e tutto quello che conteneva. Una cavalla contro un palazzo riccamente arredato, che nonno aveva vinto con una scommessa quando ancora non era nessuno nel mondo dell’ippica, ma già conosceva i cavalli più di se stesso.
– Violetta, – disse ancora nonno spalancando gli occhi e muovendo le mani come un cieco verso la parete, bianca e vuota. Mamma mi disse di mettermi contro il muro e nonno fece un gesto come per scacciare una mosca, poi ricadde sul letto e chiuse gli occhi.
Mamma portò via il vassoio che nonno non si era degnato nemmeno di guardare, lo svuotò nel secchio della spazzatura e si mise a lavare i piatti come se li volesse raschiare con le unghie. Papà la prese per un braccio e disse:
– Angela, andiamo a fare compagnia al nonno.
Nonno sembrava più piccolo di quanto non fosse mai stato, sotto la coperta che si sollevava appena; con la malattia si era consumato tutto ed erano rimaste solo le sue ossa, tutte rotte per le cadute da cavallo e i calci ricevuti quando faceva il garzone di scuderia.
– Povero papà, – disse mamma, – adesso potrebbe correre come il vento, leggero com’è.
– Perché gli hai portato tutto quel cibo? – chiese papà. E lei rispose: – È stato tutta la vita a dieta, volevo vederlo mangiare come si deve, almeno una volta.
– Correre era tutto per lui – disse papà. – Stare a dieta non gli costava niente, desiderava solo montare e vincere.
Nonno era un grande fantino. Se non arrivava primo, qualunque altro piazzamento, per quanto buono, era per lui un disonore.
– Era una vera malattia, povero papà – disse mamma. – C’è nato e adesso ci muore, chiama ancora Violetta.
– Era nato per montare e vincere, – ripeté papà.
– Non esisteva altro per lui – riprese a dire mamma con una vocina acuta. – Non si accorgeva nemmeno che ogni tanto gli nasceva un altro figlio e che mamma invecchiava precocemente, e forse aveva dimenticato anche i nostri nomi perché ci chiamava tutti ‘Tesoro’, un tesoro cui non teneva…
Nonno aprì gli occhi e tornò a fissare la parete di fronte: – Violetta – mormorò, e con la mano prese a fare il gesto di carezzare qualcosa, con tenerezza, mentre una lacrima gli scorreva sulla guancia rinsecchita.
Mamma indispettita uscì dalla stanza senza uno sguardo per nonno, che amoreggiava con la sua Violetta riflessa sul muro.
– Tua madre soffre di gelosia, – disse papà. – È da capirla, sperava che almeno alla fine il padre si ricordasse dei figli e della moglie, la povera Violetta…
Nonna era morta il giorno che nonno aveva vinto la cavalla, rischiando di perdere tutti i beni di famiglia. E l’aveva chiamata Violetta in onore di nonna. Per mia madre era stato il peggiore insulto che il nonno potesse fare alla moglie, e forse l’aveva odiato per questo.
– Violetta – rantolò nonno, cercando attorno con lo sguardo. – Tesoro… – chiamò ancora ed io gli sussurrai il nome di mamma.
– Angela – chiamò nonno, e mamma accorse e gli prese la mano.
– Angela… Violetta mi chiama… voglio andare ma non riesco… aiutami…
– Tu e la tua cavalla! – disse mamma furiosa ritirando la mano. – Nemmeno adesso riesci a pensare ad altro, solo a lei!
Nonno la guardò addolorato, senza capire.
Ma io avevo capito. Sussurrai al nonno: – Di’ a mamma chi è la Violetta che ti chiama. – Nonno comprese e disse lentamente:
– Tua madre è lì che mi chiama, ma non posso andare se non mi aiuti. – E mamma rischiarandosi tutta sollevò la testa del nonno, che spalancò le braccia e volò dall’altra parte, con il salto più bello di tutta la sua vita di fantino vincente.