a Vito
Non so come faccia ogni anno a sopravvivere a questo giorno. È un giorno di guerra. Una guerra in cui nessuno sa contro chi combatte e si affronta disperato. Esce alla cieca e poi, non trovando il nemico, finisce per volgersi contro se stesso, affannosamente, e cadere sconfitto. Bisogna restarsene rintanati nell’angolo più sicuro della casa, tra le proprie cose, con una distrazione qualunque. Come guardare la televisione; ma neanche quello si può perché in tutti i canali sono lì, riuniti nel clamore, pronti al conto alla rovescia, al brindisi finale. Magari fosse una fine davvero, ma è ricominciata sempre. Non so come. Potrei mettermi a scappare all’improvviso, alla cieca, come un cane spaventato dagli spari, prendere una strada qualsiasi e correre correre per le vie fino a raggiungere la periferia, oltrepassare la circonvallazione, fermandomi soltanto di fronte all’umido freddo che sale dalla terra: il fiato ansante, le mani appoggiate sulle ginocchia, il corpo ripiegato come una sigaretta. Resterei a guardare il fumo uscire dalla bocca, aspettando che mi consumi, che mi spenga la notte. È così limpido il cielo di dicembre da essere spietato. Bisogna offrire alla sua divinità almeno il viso per ricevere in cambio il bruciore di quelle sottilissime punture di stelle.
Soltanto i cani e i gatti mi sono vicini in questa notte. E come loro vorrei essere chiuso bene bene tra le pareti, e accarezzato per non ululare di terrore, per non fuggire dall’unica imposta lasciata aperta. Ma qui non c’è nessuno che possa accarezzarmi. Non c’è più da quando Milena se ne è andata. Ho deciso di non tenere nessuna foto di lei. Sarebbe troppo vederla sorridere sui muri, guardarmi da un comò con il viso leggermente inclinato, come se seguisse i miei passi avanti e indietro nella stanza. Se avessi ceduto alla tentazione di conservare la sua immagine questa casa dove abbiamo vissuto insieme per cinque anni, dopo l’Università, sarebbe diventata il suo santuario. E io mi sarei lasciato seppellire vivo accanto a lei, qui, sul sofà, in questa stanza dove ora staremmo a parlare senza emettere alcun suono, guardandoci negli occhi, sfiorandoci appena nei gesti che ci portano ora da una parte ora dall’altra, sempre di nuovo incontro, come due pesci in una piccola vasca rotonda. Quel giorno in cui l’ho guardata per ore, fin quasi a non vederla più, prima che la fiamma ossidrica la sigillasse, appena tornato a casa, con la forza della disperazione ho raccolto tutti i suoi oggetti, i libri, i vestiti, le scarpe, i trucchi, nei grandi sacchetti neri per quel lutto intollerabile, infinito, e ho buttato tutto nel bidone alla fine della via. Non c’è più niente di lei, nessuna immagine, niente che ne conservi il ricordo oltre a queste stanze, a questo spazio diviso da pareti che non ho potuto demolire perché sono ancora in affitto. I mobili li ho disposti in un altro modo e, quelli che non ho potuto spostare o buttare, come la lavatrice e la televisione, perché non posso permettermi degli elettrodomestici nuovi, li ho ricoperti con un telo che alzo in parte solo quando li uso, come in un piccolo teatrino di casa. Così sembro sempre arrivato da poco o sul punto di traslocare. E invece non me ne andrò mai da qui. E poi così i mobili non prendono la polvere, mi dico. Non ho tempo per fare le pulizie; mi limito a spalancare ogni tanto tutte le finestre, perché cambi l’aria ed entri luce. La luce disinfetta e guarisce, dicono. E poi da solo non sporco tanto. Mangio a volte anche in piedi, qualcosa che mi compro nel forno sotto casa. E d’altronde oltre a me non entra più nessuno. La signora del condominio e il postino non vanno oltre la soglia, non potrei permettere a nessuno di calpestare questo pavimento, queste piastrelle rosate che ha sorretto e tenuto insieme Milena, che ha pulito ogni fine settimana, inginocchiandosi ogni tanto, per sfregare le piccole incrostazioni. A volte mi fermo ad accarezzare le pareti. Lisce e chiare come la sua pelle. Non mi resta altro di lei, solo questo spazio che posso ancora abitare e dove lei, liberata da cornici, e dalla ristrettezza degli oggetti, è dappertutto.
Sono stato fortunato, la via in cui abbiamo preso casa è tranquilla. E di fianco all’appartamento non c’è nessuno, né a destra, né a sinistra. C’è soltanto lui, di sopra, in una piccola mansarda. Si sveglia alla mia stessa ora ma rincasa dal lavoro più tardi. Lo sento allora che cammina, da questa parte della casa. Va verso la cucina che deve essere sopra la mia camera da letto. Allora io mi ritiro nella sala. Ho spostato i mobili quando ho capito la collocazione delle sue stanze. Eppure anche da qui, con le porte chiuse e la libreria che mi isola dai rumori non posso fare a meno di sentire degli improvvisi scrosci sul soffitto, come rovesci di pioggia che mi manda lui, il mio piccolo e sconosciuto dio che determina la mia pace e la mia inquietudine, che mi dona la grazia del silenzio e poi, ad un tratto, quelle imprevedibili scariche di proiettili e di spilli che si infilzano proprio qui, sullo stomaco. Stasera fortunatamente è uscito già dal tardo pomeriggio e credo che non ritornerà. È andato nella guerra che stanno combattendo di fuori, tra forzati sorrisi e incivili cene vomitate agli angoli della strada. È andato in un posto dove sarà costretto a divertirsi o a riconoscere di avere speso soldi inutilmente. Da quando si è trasferito l’ho intravisto solo una volta, pochi secondi, nel pianerottolo mentre entrava in casa, ma credo di sapere di lui molto di più del suo migliore amico o di quella ragazza che ogni tanto mi costringe a vegliare la notte, nel silenzio violato, fino a che torna la pace. Lui è l’antenna che collega al mondo questo mio schermo frusciante, perennemente grigio. È forse l’unico peso che mi tiene a terra. Quando non c’è, il silenzio è spesso così fondo che oltrepassa la soglia dell’udito: allora arrivano fischi sottilissimi come quelli che credo sentano i cani. Il mio orecchio è così allenato che è diventato quello di un animale notturno. Il mio orecchio è sfondato dall’amore per Milena. Arrivo a sentire il suo respiro, in certi istanti in cui sta aspettando le parole da dirmi. Ma non posso starle così vicino a lungo, possiamo concederci solo brevi momenti, e lei lo sa, altrimenti la raggiungerei subito, ma lei non vuole. Vuole che resti ancora altri anni qui, ad ascoltarla da una distanza, a custodire questa casa come fosse il suo corpo. Allora quando il silenzio inizia ad aprirsi, la ascolto alcuni momenti e poi accendo il televisore sul canale grigio e mi metto a leggere un libro.
La guerra sembra si stia avvicinando. Deve essere per l’ora. La mezzanotte che aspettano. Hanno tutti così paura che non vogliono prendere sonno. Hanno ragione. È un giorno terribile. Il compleanno di tutti. Bisognerebbe accucciarsi sulla terra, a un lato della strada, come investiti.
Franca Mancinelli