Il cinema proviene dal teatro (necessità di fotografare attori e, dopo l’invenzione degli impianti audio, di sentirli) o dal romanzo (necessità di dare prestigio ai libri). È soltanto adesso che il cinema proviene dal cinema. Per questo motivo assistiamo alla proliferazione dei remakes, rielaborazioni di ciò che un tempo è già stato cinema. Fu nel 1940, ne Il cittadino Kane, che il cinema sembrava provenire dal teatro e dal romanzo al tempo stesso. Ma Kane, con tanti attori prestigiosi nel cast, con un attore eminente anche se giovane dietro e davanti la macchina da presa, Orson Welles, con tanto trucco e verità provenienti dalla macchina da presa, maneggiata da quel genio della cinematografia che fu Greg Toland, con un montaggio mirabile e al tempo stesso una profondità visiva di una macchina da presa coraggiosa, era, essenzialmente, una pellicola loquace, eloquente, quasi garrula. La pellicola si poteva sentire come vedere, al punto che un critico inglese, Kenneth Tynan, suggerì in una recensione di vedere Kane con gli occhi chiusi! Perché? Perché, semplicemente, la sua arte proveniva in gran parte dalla radio. Welles proveniva da Wells (H. G.) e dallo scalpore che fece il suo programma La guerra dei mondi con cui terrorizzò tutti gli Stati Uniti e scandalizzò Wells. Quello fu il suo biglietto sonoro per entrare a Hollywood dalla porta principale. Se non fosse esistita la radio Welles non sarebbe mai stato Orson e non avrebbe potuto pronunciare queste parole minacciose con la sua voce cavernosa e impostata capace di fermare una rumba da sala suonata dall’orchestra di Ramón Raquello (nome improbabile) per dire: “Interrompiamo questo programma di musica ballabile per diffondere un notiziario straordinario”. Il resto è storia della radio e pandemonio reale.
La radio dopo Welles (la cui ultima pellicola realizzata a Hollywood, una brutale versione di Macbeth, un’opera brutale, era Shakespeare per radio) mantenne la sua influenza per tutti gli anni quaranta. Persino un thriller di Michael Curtiz, il regista d’azione per eccellenza degli anni Trenta, The Unsuspected, era stato offerto prima a Welles e soltanto dopo il suo rifiuto ottenne il ruolo Claude Rains. Un attore la cui caratteristica principale era una voce educata di stampo inglese. Il protagonista, quasi non c’è bisogno di dirlo, era una personalità della radio che diventava un assassino. Rains costruiva i suoi alibi per radio ed era alla radio che confessava i suoi crimini.
Gli anni Cinquanta, con la televisione alle porte, obbligarono Hollywood a prelevare tutti i suoi nuovi talenti (produttori, attori, registi) dalla televisione, che ancora aveva sede, come prima la radio, a New York. In quel tempo lo Shakespeare più alla mano era uno scrittore di televisione, Paddy Payefsky, che aveva un nome irlandese e cognome giudeo come per dimostrare che il sangue di Manhattan scorreva due volte nelle sue vene. Payefsky fu autore della sceneggiatura di diversi successi di allora. Marty fu un grande successo di pubblico e al tempo stesso un’opera d’arte. Il suo interprete, Ernest Effron Borgnine, vinse un Oscar e molti premi all’estero. Payefsky fece fiasco con Addio al celibato e Dodici uomini senza pietà, pura televisione (tutto accadeva nella stanza del tribunale che delibera), ma riscosse ugualmente un grande successo di pubblico e di critica. Tutti i registi di talento provenivano dalla televisione, ma Hollywood non sapeva quel che sarebbe accaduto. Presto una televisione di grande successo costruì i suoi studi a Hollywood.
Gli anni Sessanta furono di decadenza per il cinema e di sempre maggior auge per la televisione, alla fine persino i futuri geni del cinema, come Steven Spielberg, facevano televisione o, come Scorsese e Coppola, lavoravano in scuole di cinema e fecero successo grazie alla televisione. Fu Spielberg a realizzare la sua prima opera maestra, Duello, per la televisione.
Gli anni Settanta furono pessimi per il cinema come arte e andò ancora peggio per l’industria cinematografica. Ma fu in questo decennio che Coppola cominciò a usare (con l’aiuto dell’ingegneria elettronica imitando Jerry Lewis) la televisione come monitor di una macchina da presa per visualizzare le scene in produzione. Negli anni Ottanta, Woody Allen, che si faceva beffe della televisione nei suoi omaggi costanti a Bergman e a Fellini, produsse una commedia, Radio Days, che era uno sguardo nostalgico verso la radio della sua fanciullezza. Resta tra le sue pellicole più care.
Adesso, negli anni Novanta, è comparso un regista che non deve niente al teatro né alla radio. In realtà non è uno, sono almeno due: Robert Rodríguez e Quentin Tarantino. Robert Rodríguez (texano-messicano, nato ad Austin, Texas) non solo ha imparato tutto dalla televisione, ma persino dal videotape, vedendo cinema in tapes trasmesso in televisione. Ebbi lo strano onore di presentare al pubblico del Festival di Telluride un artista non solo nuovo ma anche straordinario. La prima e unica pellicola di Robert, El mariachi, era stata messa insieme a un gruppo di pellicole messicane così pessime che ci voleva coraggio per non ridere di fronte a simili porcherie.
El mariachi fu il successo di questo festival diretto da due esperti del cinema più esoterico, Tom Luddy e Bill Pence, dove accorrono tutte le stelle della vicina Hollywood. La pellicola di Rodríguez, girata con 7.000 dollari e filmata interamente in videotape fu passata in 18 millimetri e, infine, con il logo della dama con la torcia della Columbia Pictures, trasferita in 35 millimetri. L’ultima versione fu quella che videro gli spedizionieri di Telluride, tra le montagne del Colorado. Si tratta di un villaggio (di una sola strada), molto ricco nel secolo passato, quindi impoverito fino a diventare quasi un paese fantasma. A Telluride, in momenti diversi, furono girate le prime scene di Butch Cassidy e Sundance Kid. Nel suo periodo di gloria la banca locale subì il primo assalto reale da parte dei due banditi, che il cinema immortalò quasi cent’anni dopo. Robert, come Butch e Sundance, aveva incontrato a Telluride il suo approdo: il festival lo lanciò verso la fama. Adesso sta girando El Mariachi 2 con Antonio Banderas e molti milioni di quella miniera d’oro chiamata Hollywood.
Curiosamente in quello stesso festival di Telluride consegnai una medaglia d’argento ad Harvey Keitel (a colui che chiamai allora “l’Edward G. Robbins degli anni Novanta”) per essere stato protagonista de Il cattivo tenente e, sorpresa!, Le iene. Non vidi quella pellicola allora, né conobbi Tarantino, sino al Festival di Cannes e in un cinema di Londra. Tarantino, adesso famoso, conta tra i suoi fan Robert Rodríguez.
“Il crimine non paga”, è un vecchio moto dell’FBI. La Warner Brothers avrebbe dimostrato tutto il contrario: il crimine, almeno nel cinema, paga piuttosto bene. La prima pellicola che affronta un tema di gangster (senza contare la primissima Underworld di Von Sternberg del periodo muto: il rumore delle armi non si poteva ancora sentire) fu Il piccolo Cesare, proprio con Edward G. Robbins nei panni di Cesare Bandello, che faceva una morte non certo da potente ma piuttosto patetica, dicendo. “Madre di Dio è questa la fine di Rico?”. Da allora lo schermo fu tutto un ribollire di fumo di pistole con Scarface, Il nemico pubblico e Strade senza uscita, fino a tutti i padrini e i suoi numerosi simili. Adesso il crimine paga anche per Quentin Tarantino. La sua prima pellicola, Le Iene (Reservoir Dogs), è il genio che dorme dentro la bottiglia. In questo caso dentro lo schermo. Mai da Il cittadino Kane, facendo salve tutte le differenze drammatiche, il debutto di un regista è stato così acclamato dalla critica. Come Welles, Tarantino scrive le sue sceneggiature ed è interprete forse minore delle sue uniche due pellicole. Tarantino (e forse qui sta tutta la sua originalità) proviene da un’educazione cinematografica a base di videotapes. A parte Le iene e Pulp Fiction (che ho contribuito a premiare nel Festival di Cannes con la prestigiosa Palma d’Oro) Tarantino scrisse la sceneggiatura di un’altra pellicola di gangster, True Romance (Una vita al massimo, ndt). Ma questa volta c’erano pallottole e baci e, al contrario delle precedenti, l’amore trionfava in questa versione di un Virgilio con pistole esaltato dalla droga preferita da Hollywood adesso che l’alcol è cosa per vecchi. Quella droga si chiama cocaina ma anche champagne in polvere: prima quando si parlava di polvere di stelle si alludeva a un’emanazione cosmica. Adesso la coca è cosmica e, a volte, comica.
L’educazione di Quentin Tarantino è tutta a base di cinema ma sempre davanti allo schermo. Fu persino maschera di un cinema porno estremo. Da allora, dichiara, ha odiato le scene erotiche. Non ne vediamo neppure una (se si esclude True Romance che non diresse) nelle sue due pellicole. Ne Le iene compaiono appena due donne: una cameriera astenica e una signora in automobile munita di pistola letale. Questa scena è così rapida e fa parte di un flashback che pare quasi la visione retrograda di un sogno, o di un incubo. Inoltre, nelle sue pellicole, ci sono più discorsi che azione. Non molto usuale nelle storie di gangster.
Le iene comincia in un ristorante durante un pranzo dei due futuri duri. Ma la sola cosa di cui discutono instancabilmente concerne l’opportunità di lasciare o meno una mancia! Dopo assistiamo a interminabili discussioni sulla convenienza di una rapina a mano armata, più tardi, realizzata la rapina, sul fatto se sia il caso di eliminare un poliziotto a cui hanno tagliato un orecchio. (Una cosa è certa, le orecchie, morse, calpestate in un giardino - in Velluto Blu - tagliate ne Le iene, sono diventate decisive per il cinema americano moderno come per Van Gogh. La macchina da presa si comporta come Gauguin).
Le parole ne Le iene e Pulp Fiction abbondano come nelle pellicole di David Mamet, che provengono tutte dal teatro e nelle quali, al contrario del dictat tradizionale di Hollywood (il dialogo serve solo per far progredire l’azione), le parole sono l’azione e bisogna vedere le uniche due pellicole di Tarantino come allegorie della parola e delle espressioni volgari. In definitiva ci troviamo di fronte a un cinema morale, lo stesso Tarantino confessa il suo attaccamento al defunto Codice Hays seguito per decenni da Hollywood. Per lui, come per il J. Edgard Hoover della FBI, il crimine non paga. Si tratta di arrivare a Dio con la blasfemia come il Robert Bresson di Pickpocket (Diario di un ladro, ndt). Questa volta l’allegoria della violenza possiede una morale contro la violenza. Ne Le iene e in Pulp Fiction muoiono solo i violenti. Era molto che non accadeva a Hollywood. Dai tempi del Codice Hays.
Tarantino, aspirante attore, è prima di tutto scrittore. La prima cosa che scrisse, portata al cinema, fu True Romance, realizzata da Tony Scott. Qui compare come un’opzione che diventa ossessione Patricia Arquette, cui la pellicola conferisce un’aria da bionda con i capelli d’oro che aveva, per esempio, Lana Turner ne Il postino suona sempre due volte. Ma ne Le iene non c’è una sola donna e la banda dei sei produce soltanto una relazione equivoca. Come dice Gore Vidal: “L’unione intima di uomini, sia nello sport come nell’esercito, produce sempre omosessuali”. In questo caso la gang di malviventi termina nella distruzione fisica e in un abbraccio finale di due uomini. Tuttavia, questa pellicola, la sceneggiatura di True Romance e l’intera concezione di Pulp Fiction non derivano dallo schermo cinematografico ma dal piccolo schermo per visualizzare video. Fu lavorando in un negozio di vendita e noleggio di videotapes che Tarantino concepì le sue due opere maestre. Questo negozio fu la cosa più vicina a Hollywood che il giovane Tarantino riuscì a raggiungere. Un sogno infantile di Quentin.
Un bambino nato spettatore di cinema, sua madre lo portava a vedere ogni genere di film, persino Conoscenza carnale, una pellicola che non era adatta ai minori di 18 anni. Quentin aveva solo cinque anni. La pellicola annoiò moltissimo Tarantino. Nessuno si spiega come la madre di Quentin (che gli aveva messo questo nome perché sapeva che sarebbe diventato famoso da grande, ma a lei nessuno disse mai che il Quentin più famoso è il carcere di San Quentin) riuscisse a far entrare un minorenne nelle sale dove si proiettavano queste pellicole che interessavano il piccolo Quentin più per i pop-corn che per le stelle femminili che splendevano sul grande schermo. Il momento culminante della biografia di Tarantino è proprio quando fu assunto in quella rivendita di video adesso diventata famosa. “Era il lavoro ideale”, spiega. “Potevo vedere tutti i film gratis e inoltre mi restava tempo per leggere e scrivere”. Cosa vedeva Quentin? “Tutte le pellicole del mondo”. Cosa leggeva Tarantino? “I libri più economici, ancora più economici dei tascabili”. Leggeva, secondo quel che dice, pulp fiction.
Ma che cosa dobbiamo intendere per pulp? Nella sua prima accezione pulp è un magazine stampato su carta economica. Inoltre “qualunque magazine dedicato a una letteratura sensazionalista, effimera… stereotipata, di solito scritta con un obiettivo puramente commerciale”. Il termine si può applicare alla maggior parte del contenuto delle pellicole, siano o meno violente, thriller, western e persino le pellicole d’amore che appassionavano la signora Tarantino. Ma non alle pellicole di suo figlio. Tarantino, che è molto astuto, scelse Pulp Fiction come titolo solo perché dotato di fascino, inoltre il vero significato del termine pulp è caduto in disuso. In ogni caso anche quando il termine era in auge, negli anni Venti, e si poteva applicare, per esempio, alla rivista Black Mask (La maschera nera, nome che calzava a pennello per Arsenio Lupin) non si poteva usare per i suoi principali collaboratori, Dashiell Ammett e Raymond Chandler. La fiction del pulp si salvava, soprattutto, grazie allo stile. E chi era il massimo stilista allora in voga? Ernest Hemingway, logicamente. Tutta la letteratura di Black Mask derivava da un racconto di Hemingway pubblicato anni prima, Gli assassini.
In questa narrazione breve, un’opera maestra, la violenza era implicita e diventava esplicita solo nel dialogo dei due assassini (adesso si chiamano hit men) che entravano in una sala da pranzo del profondo ovest vestiti come due comici da vaudeville. Il loro dialogo prima era duro, poi minaccioso e finalmente letale. Proprio come il dialogo tra Vince Vega (John Travolta) e Jules (Samuel Jackson) davanti ai tre ragazzi che sappiamo dovranno eliminare, così come sappiamo ne Gli assassini, cosa faranno dello Svedese i due ospiti dai cappotti attillati, Al e Max. Ora, Jules, che è nero, prima di colpire i suoi bianchi, recita alcuni versetti di Ezechiele che predicono come un oracolo la caduta di Israele. Pulp Fiction comincia in maniera umoristica: ridere prima di morire. Tutta la pellicola mantiene un tono di umorismo nero anche se Tarantino ci obbliga a prenderla sul serio e il suo stile oscilla tra l’umorismo e la violenza più orribile. A parte la morte dei ragazzi che si sono dimenticati di consegnare il denaro al killer più grande, c’è un morto per incidente dentro un’auto, l’amante del killer patisce un collasso per aver inalato cocaina con morfina, un boxeur vende un incontro per scommettere su se stesso e alla fine vince, tradendo il killer, una copia pederasta sodomizza il killer, il boxeur si vendica di un sodomita, mentre il killer castra chi l’aveva sodomizzato sparandogli due colpi tra le gambe e, finalmente, la violenza che torna al principio, perché Pulp Fiction è raccontata per mezzo di storie che ritornano e fanno della pellicola una sorta di tour dell’orrore. Tarantino ha imparato da Hemingway a raccontare la sua seconda pellicola e anche se allude all’etichetta di pulp fiction questa Pulp Fiction è fiction ma non è pulp. È, al contrario, una pellicola di semplice azione come Le iene, ma raccontata in maniera sofisticata, come le vecchie pellicole della Warner Brothers, quelle che prima facevano pagare al pubblico per il crimine. Adesso il crimine non solo paga ma vince premi davanti alle presunte pellicole artistiche, quelle che hanno preso il cinema come una pretenziosa settima arte. Dice Tarantino, che è molto generoso negli apprezzamenti, proprio come lo fu Orson Welles, di un’altra pellicola: “È una pellicola che reinventa il cinema”. Questo si può dire de Le iene, ma soprattutto di Pulp Fiction. Il cinema che reinventa il cinema.
Guillermo Cabrera Infante
da Cine o sardina (Santillana, 1997)
Traduzione di Gordiano Lupi
Nota del traduttore: Il pezzo è stato scritto nel 1995 ed è riferito soltanto alle prime due pellicole di Quentin Tarantino. Il giudizio di Guillermo Cabrera Infante (1929 - 2005) è giocoforza parziale, ma il grande scrittore cubano esule a Londra si mostra molto lungimirante e aperto verso le nuove tendenze cinematografiche.