"Chi ha inventato la nave
ha inventato il naufragio"
Lao Tzu, IV sec. a.C.
Sull'aereo che mi stava portando in Nuova Zelanda un articolo dell'Australian Post apriva più o meno cosi: "La fine del mondo è davvero vicina?". Seguiva una lista di personaggi famosi, perlomeno famosi qui in Australia, ognuno dei quali diceva la sua riguardo questo scottante tema di attualità. Mancava ancora qualche mese all'arrivo del fatidico 2012 ma già l'umanità si preparava a fare i conti con la fine.
Che disastro. Che tragedia. Ripiegai il giornale e lo infilai sotto il sedile. Poco mi importava a dire il vero. Dopotutto stavo andando in Nuova Zelanda, il sole entrava dal finestrino dell'aereo, la mia compagna dormiva di fianco a me, vecchi pezzi di Neil Young mi tenevano compagnia e a terra mi aspettava un furgone a noleggio e un'isola da esplorare.
L'isola in questione è l'Isola del Sud che, insieme all'Isola del Nord, formano lo stato della Nuova Zelanda. Dopo sei mesi in Australia, questo sarebbe stato un viaggio nel viaggio, prima di ritornare per altri sei mesi a Melbourne, a fare caffè in un bar sul lungomare.
Dopo aver sorvolato lo stretto di Tasmania e l'imponente profilo del Mount Cook arrivammo a Christchurch in uno splendido pomeriggio, uno di quei tipici pomeriggi australi in cui il cielo si colora di una fortissima tonalità blu che solo qui può esistere, dove le acque degli oceani incontrano i venti del Polo Sud.
Ancora prima di incrociare uno sguardo neozelandese avevo deciso che loro, sangue europeo e portamento maori, mi stavano simpatici. Difficile darmi torto, credo. Dopotutto parliamo di un popolo che non hai mai avuto sanguinari tiranni come leader, né eserciti pronti a sganciare bombe su civili inermi, parliamo di un paese le cui casse non sono foraggiate da bande criminali o da narcotrafficanti, dove nessuno dà del terrone a qualcun'altro. Insomma, un paese pacifico come l'Oceano che lo circonda.
Ma il punto è proprio questo. Non era il suo carattere benevolo ciò che mi attirava. Piuttosto era il suo essere alla fine del mondo, laggiù in fondo alla cartina, una macchia verde in un angolo remoto del mappamondo. Forse proprio nel punto il cui il mondo finisce. La Nuova Zelanda rappresenta ai miei occhi l'ultimo avamposto della civiltà, il baluardo terminale dell'umanità prima dell'inizio delle barbarie naturali fatte di venti irresistibili, acque gelide e deserti di ghiaccio dove la vita non è possibile.
Se vogliamo cercare l'ultima frontiera del nostro mondo è qui che bisogna dare un'occhiata. Ma non solo. Se vogliamo capire come potrebbe finire il mondo, e quest'anno di nefaste profezie potrebbe essere un ottimo argomento per un aperitivo tra amici, è qui che possiamo scoprire qualcosa di interessante. In una isola-nazione cosi remota, circondata da onde spaventose, con vette imponenti, ghiacciai, vulcani, piogge incessanti, leggende di elfi, hobbit e stregoni, vulcani estinti e terremoti che scuotono continuamente una popolazione isolata, inerme, quantitativamente ridicola. Credetemi, qui la fine del mondo è vicina.
Christchurch. La terra trema
Forse il mondo potrebbe finire qui e potrebbe fare la fine di questa città: Christchurch. Adorabile città, che sia chiaro, sulla costa Ovest. Ha l'aria di essere stato un posto ideale dove nascere, vivere e morire. Sono bastati venti secondi per mandare tutto all'aria. Era il 22 Febbraio 2011, poco dopo mezzogiorno di una calda giornata estiva. Una scossa di terremoto è arrivata senza preavviso e questa volta è stata tremenda. Venti secondi per abbattere una città e portarsi via la vita di 200 persone. Al termine della giornata i feriti sono più di mille, il centro della città è un ammasso di macerie. Il week-end successivo 70 mila persone lasciarono la città senza mai pià tornarci.
Ora ciò che rimane sono le macerie, le case vuote con la scritta vendesi e il terrore nelle parole delle persone che ci accolgono con calore. E se davvero finisse cosi? Un giorno d'estate, mentre i telegiornali mandano i consigli per gli acquisti, la terra si apre e la civiltà si accartoccia alzando una gran polvere.
In piena notte mi sveglio di colpo. Il letto traballa per alcuni secondi. Il lampadario anche. Non è un brutto sogno, è l'ennesimo aftershock, scossa di assestamento. Ho paura. Riprovo a dormire ma niente. Alle prime luci dell'alba chiudo lo zaino e lo lancio sul furgone, siamo pronti per ripartire. Addio Christchurch, ci rimarrai nei cuori, i tuoi palazzi distrutti e la tua gente tenace. Se il mondo dovesse finire cosi sarebbe brutto, comprensibile ma brutto.
Kaikoura. L'invasione dei macrocefali
Ci rimettiamo in marcia percorrendo la statale verso nord, fino a prendere una deviazione che ci porta a un piccolo villaggio dal nome Maori: Kaikoura. Credo che siano pochi i paesi al mondo che possano vantare una cosi ricca varietà di paesaggi in un territorio cosi circoscritto come lo è quello Neozelandese. E Kaikoura è l'esempio. L'oceano da una parte, alti e verdissime montagne a riva. Una striscia di roccia nel mezzo. Qualche casa, qualche negozio di souvenir. E l'opportunità di vedere dal vivo specie animali che sono abituato a vedere a "Superquark" o a "Paperissima": delfini, leoni marini, albatros, cormorani e sopratutto balene. Capidogli per la precisione.
Le coste al largo di Kaikoura sono praticamente per questi macrocefali quello che la tangenziale est è per ogni milanese: un tragitto obbligato per andare in posti migliori. Di qui i capidogli transitano per scendere verso acque più fredde e trovare una compagna con la quale accoppiarsi lontano dalle macchine fotografiche di masse di turisti-voyeur. Questi sono animali incredibili. Sono immensi nelle dimensioni, maestosi nel loro stare in acqua, escono all'improvviso, prendono fiato immobili sulla superficie dell'acqua, innalzano la coda in alto verso il cielo e con una gran spinta si rituffano negli abissi senza fare rumore.
Bene, allora andiamo a vederlo questo gigantesco essere marino. Prendiamo il largo a bordo di una barchetta in una splendida mattinata di sole. Alcuni surfisti aspettano l'onda giusta. Un centinaio di delfini ci seguono saltando. L'andatura è traballante, sbattiamo contro le onde, ci pieghiamo fino a perdere l'equilibrio. L'oceano non ha pietà nemmeno per chi ha pagato il biglietto. Ma loro sono sono davanti a noi. Possenti, maestosi, preistorici. Un animale che giunge ai giorni nostri dalla preistoria, quando il mondo era qualcosa di diverso e l'umanità una storia inimmaginabile. Un mostro marino, il Leviatano.
In fondo potrebbe essere questo il nostro capolinea: l'imprevedibile processo evolutivo consegna il mondo nelle mani di esseri animali mostruosi, che arrivano dagli abissi degli oceani per colonizzare la terraferma. Cosa potremmo fare noi umani? Potremmo tentare di annientarli con la tecnologia, con la scienza, con le armi. Ma sarebbe una lotta inutile, anzi, accelererebbe solo il nostro inesorabile e tragico declino. Città distrutte da enormi scimmioni marini, parcheggi dei centri commerciali che diventano rifugi di giganteschi trichechi mangia-asfalto, enclavi umane assediate da lucertoloni in grado di superare qualsiasi barriera protettiva, il trasporto via mare reso impossibile dalla presenza di spietati macrocefali assetati di sangue umano. Quanto a lungo sarebbe in grado di resistere l'umanità? Davvero poco, credo. Traditi proprio da chi ci ha nutrito per secoli sotto forma di fritto misto, bastoncini impanati, sushi. Beffardo destino dal gusto di rivincita.
Ma qualcosa di più urgente cattura la mia attenzione e mi riporta con i piedi per terra. Sara, la mia fidanzata, soffre di mal di mare. Avevamo il sospetto. Stamattina la conferma si presenta sotto forma di sacchetto bianco riempito fino all'orlo. La fine del mondo può aspettare. Più che il processo evolutivo al momento mi preoccupa il processo digestivo.
Murchison. E se uscisse la spia della riserva?
Qualche giorno dopo, mentre viaggiavamo per raggiungere la costa Nord, ci fermammo a trascorrere la notte in un paesino sperduto in mezzo al verde delle colline neozelandesi. La spia della riserva era accesa già da parecchio. Tra noi e il prossimo distributore forse aperto almeno un centinaio di chilometri in mezzo a foreste e boschi popolati da animali che aspettano le nostre carcasse per lo spuntino della mezzanotte. La scelta di fermarci proprio qui a Murchison fu quindi una scelta davvero poco combattuta. Pioveva a dirotto a Murchison: qualche abitazione, un campo da rugby, il pub locale, la chiesa. Stento ancora a crederci che ci sia gente capace di chiamare casa un posto simile. Tutt'attorno la notte stava scendendo su distese di prati e pecore. Tante pecore. Si stima che nell'Isola del Sud della Nuova Zelanda ci siano 60 milioni di pecore e poco più di un milione di abitanti in un territorio grande come l'Italia.
Ci piazzammo con il nostro furgone nel parcheggio deserto del campo da rugby, a pochi metri di distanza dal distributore di benzina che il mattino seguente avrebbe garantito la prosecuzione del nostro girovagare. Sugli spalti del campo, al riparo della tettoia, scaldammo con un fornellino da campeggio un paio di lattine di zuppa di zucca. Vita semplice. Meravigliosamente grama.
Il mattino, con le poche gocce di benzina rimaste nel serbatoio, attraversammo la strada e un omone in salopette di jeans ci fece il pieno di carburante. Anche questa volta ci è andata bene. Ma arriverà prima o poi il momento in cui smetterà di andarci bene. E non mi riferisco alla benzina da mettere nel nostro furgone preso a noleggio. Mi riferisco alle scorte mondiali. Prima o poi dovrà finire. Perché il petrolio non si produce e nemmeno si fa, si estrae. Ciò implica una questione di una certa importanza: il petrolio finirà. Non è una mia opinione, è un dato di fatto.
È chiamato Peak oil, "picco del petrolio". È il momento in cui la produzione mondiale di petrolio raggiungerà il suo massimo e, irrimediabile conseguenza, ne inizierà il declino. Secondo molti studiosi questo momento lo stiamo vivendo in questi anni, secondo altri invece lo abbiamo già passato. Le conseguenze della fine della produzione del petrolio saranno chiaramente disastrose e coinvolgeranno ogni settore della nostra quotidianità: la mobilità, la produzione industriale, la distribuzione dei beni. Addio oro nero, un tesoro che si è formato sotto la crosta terrestre attraverso un lento processo geologico durato milioni di anni. E noi lo stiamo sperperando in appena 150 anni, 200 ad essere ottimisti. Che arroganza. Le conseguenze sarebbero disastrose ma probabilmente non letali. Perché allora saremo sì costretti a pensare e a mettere in pratica nuovi modelli di sviluppo. Per adesso godiamoci il nostro pieno. Le rivoluzioni possono aspettare.
Franz Josef Glacier. Una tragica conclusione?
Ci sono delle espressioni davvero abusate dai giornalisti italiani. Sembra che adorino ripetere ossessivamente davanti alla telecamera l'associarsi di taluni suoni: moviola in campo, il popolo della rete, esploda la rabbia, la congiuntura internazionale, intascare una mazzetta, fare un passo indietro, nuova ondata di caldo, allarme maltempo, emergenza freddo, e molte altre ancora.
C'è un gruppo di case lungo la costa Ovest della Nuova Zelanda dove sono ossessionati da una di queste espressioni giornalistiche. Niente di più che un gruppo di case prese d'assalto da pullman di turisti a loro volta presi d'assalto da guide turistiche che abitano in quel gruppo di case. "Franz Josef Village", si chiama questo posto. Qui sembra essere solo una l'espressione in voga: riscaldamento globale. E a ben vedere ne hanno tutte le ragioni.
Franz Josef è il nome del villaggio che sorge alle pendici del ghiacciaio, anch'esso Franz Josef, omaggio dell'esploratore tedesco Julius Von Haast all'imperatore Franz Josef I. Per sé il nostro esploratore-geologo tedesco si tenne un fiume, Haast River, un passo, Haast Pass, un paese, Haast, e un'aquila estinta, Haast eagle.
Qui non si parla a vanvera quando si parla di riscaldamento globale. Il ghiacciaio di Franz Josef è immenso, maestoso. Non è però un ghiacciaio comune. La particolarità è che qui vi potete trovare contemporaneamente al mare e in montagna, con grande soddisfazione degli eterni indecisi delle ferie al mare o in montagna. Perché il ghiacciaio sorge a soli 19 km dall'oceano e a 300 metri di altezza sul livello del mare. E non è un mucchio di neve, è un vero ghiacciaio su una superficie di 20 km quadrati, ghiaccio a perdita d'occhio che ricopre tutto, dalla cima dei monti fino alle spiagge sull'oceano. Non me ne intendo molto di ghiacciai ma credo sia qualcosa di incredibile.
Noi ci mettiamo i ramponi ai piedi e accompagnati da una guida ci arrampichiamo sul ghiacciaio. Una cosa pazzesca. Infiliamo i ramponi nelle pareti di ghiaccio, saliamo lentamente seguendo le indicazioni. Attorno a noi un mondo nuovo, composto solo ed esclusivamente da materia bianca, in tutte le tonalità in cui può esistere il bianco. Bianco puro, Bianco tendente al blu, al verde, al grigio, al giallo perfino. Un mondo nuovo in cui mi sento, per l'ennesima volta, una nullità. Il clima è mite, la temperatura è primaverile, le onde dell'oceano accarezzano le spiagge alle nostre spalle. Il ghiaccio invece è duro, freddo, granitico.
La nostra guida ci mostra la potenza dei fiumi che scorrono all'interno del ghiacciaio, qualche metro sotto il punto in cui i ramponi fanno presa. La superficie è ghiaccio, l'interno è acqua che scorre e velocissima si getta nell'oceano.
Penso a quanto siamo fortunati. L'unico pianeta che mai ci capiterà di abitare è un posto magnifico. Ma assolutamente fragile. A dirlo non sono le antiche profezie Maya ma i molti studi che dimostrano che a partire dalla seconda metà del Novecento si è assistito a un generale aumento delle temperature medie, aumento dovuto in gran parte alle attività umane che si sono diffuse negli ultimi decenni. I rischi a cui andiamo incontro sono chiari: cambiamenti rapidi e radicali degli ecosistemi, un maggior numero di eventi meteorologici estremi (cicloni, siccità, ondate di gelo...), lo scioglimento dei ghiacciai e delle calotte polari con il conseguente innalzamento dei livelli del mare e la riduzione delle terre emerse. Tradotto: andremo a fare la spesa in pedalò su dei piccoli scogli che affiorano dove una volta c'era lo svincolo del Fuentes. Ecco perché qui a Franz Josef insistono tanto su questa storia. Che ci vogliano dire che val la pena prendersi cura seriamente dell'unico pianeta che mai ci capiterà di abitare?
Rocco Del Nero