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Carmine Abate, primo finalista nella cinquina del Premio Campiello 2012 
Incontro al “Paese delle storie”. Albosaggia, 26 maggio 2012
11 Giugno 2012
 

Fresco di selezione nella cinquina dei finalisti al cinquantesimo Premio Campiello, incontriamo Carmine Abate nella bella cornice del festival della letteratura di Albosaggia “Il paese delle storie”.

Lo scrittore ci racconta dell’emozione che si prova: lo confesso, non ho mai scritto per me stesso, come tanti miei colleghi affermano, ma sempre per raccontare, per comunicare agli altri. Quindi, certo!, il desiderio appagato di essere letto mi conquista. Ieri, alla nomina, son tornato ragazzino davanti alla partita di calcio della squadra del cuore! Naturalmente fermo restando che scrivo per i lettori, non per ricevere premi.

Comincia così il lungo colloquio tra Carmine Abate e quanti hanno avuto il piacere di ascoltarlo. Si avverte da subito quanto sia un narratore di storie, che ama ciò che fa.

La collina del vento è la collina di Rossarco, a pochi chilometri dal Mar Jonio, e le vicende sono quelle di una famiglia di contadini. La scelta dell’argomento è stata casuale; posso dire di incontrare un’immagine, un personaggio che poi mi segue, a volte mi perseguita: esige di essere assecondato e così da sempre nascono i miei romanzi. In questo caso la collina di Rossarco mi ha invaso i pensieri, con i suoi colori, quelli dei fiori rossi di sulla che in primavera sono un tripudio di chiazze bellissime.

Un luogo misterioso, un po’ come avvertiamo sia tutto il paese d’origine di Abate e il territorio circostante; si parla di Carfizzi, una delle cento comunità fondate tra la fine del ‘400 e la fine del ‘600, in successive ondate migratorie, dai profughi albanesi che sfuggivano dai Turchi trovando riparo in Italia. Ne nacquero un po’ in tutto il meridione, in Calabria, in Sicilia, negli Abruzzi… Ventisette in provincia di Reggio.

Ancora oggi in una cinquantina di questi paesi si parla l’arberesch, l’albanese più antico, e si tenta di mantenere le proprie tradizioni. La scolarizzazione porta con sé l’apprendimento dell’italiano, così avvenne anche per Carmine Abate.

Fino ai sei anni non avevo mai sentito parlare l’italiano, poi d’improvviso mi ritrovai scolarizzato in questa lingua che io avverto ancora come straniera, e analfabeta nella mia madre lingua... E questo, se permettete, è un’ingiustizia: in fondo la Repubblica italiana – così cita la Costituzione nell’art. 6 – tutela le minoranze linguistiche. Sarebbe davvero giusto e bello che ciò avvenga e fosse avvenuto anche nella realtà, non solo sulla carta della bellissima, democratica Costituzione italiana… Non dico che si debba crescere completamente avulsi dalla cultura del Paese che ormai è “nostro”, ma studiare l’arberesch sarebbe un valore aggiunto. Abbiamo, in Albania, famosi scrittori che dimostrano – se ce ne fosse bisogno – che la mia lingua madre è scritta, è letta. Ricordo ad esempio il grande scrittore Girolamo De Rada (1814-1903), studiato nelle scuole albanesi, considerato il Dante arberesch…

Alla domanda se c’è una difficoltà maggiore nello scrivere con una lingua che non si sente del tutto propria, Abate risponde così:

Ho dovuto sempre scrivere con quella che chiamo “la lingua del pane”, quella del lavoro che ci dà da mangiare e non con la lingua con cui penso e sogno, la lingua del cuore, l’arberesch. Direi che c’è perfino un vantaggio: una lingua “a distanza” fa da filtro per le esperienze, consente di non inciampare nella retorica, in particolare quando i temi trattati sono, come i miei, la nostalgia, il ricordo che non voglio lamentoso. Le parole arberesch che si impigliano nelle mie pagine, in principio mi hanno dato dei problemi. Il mio primo editore ne chiedeva l’eliminazione; io non volli, già ai tempi de Il ballo tondo, avrebbe snaturato la storia: Mi vennero chieste allora le note a piè di pagina: sgranai gli occhi... In un romanzo? Allora il glossario… Niente da fare, rifiutai e feci bene: ora sono considerato semplicemente un autore plurilinguista.

Ne La collina del vento alle vicende familiari e all’azione che parte come un giallo col ritrovamento di due cadaveri da parte del piccolo protagonista, si accompagna il recupero della memoria storica di un tempo e di un luogo. Quello della Calabria con il latifondismo, con i contadini-schiavi del proprietario terriero, succubi e poveri, ma capaci ad un certo punto di una vera rivoluzione: l’occupazione delle terre incolte e il riscatto del proprio lavoro e della propria dignità. Inoltre nel romanzo si incontrano anche personaggi realmente esistiti come il celebre archeologo trentino Paolo Orsi, con la storia dei suoi scavi alla ricerca della mitica Krimisa, città della Magna Grecia risalente al VII sec. a.C.

Il libro presenta spunti sicuramente autobiografici nel rapporto tra il protagonista e il padre. In questo mio romanzo, che ho dedicato a mio padre morto lo scorso anno, di questo parlo, del legame che mi ha unito a lui. I suoi racconti di emigrato negli anni ’40, del fascismo al mio paese, del periodo in cui al Sud si viveva veramente come nel Medioevo… tutto ciò è stato materia viva per il mio scrivere. E così ho mantenuto la promessa non verbale, ma nata dentro di me, di mettere su carta il suo narrare, soprattutto nell’ultimo suo anno di vita.

Altro aspetto fondamentale ad emergere dal romanzo è il legame col territorio, il proposito che deve essere fermo e costante di non ferirlo, di non abusarne, meno che mai per ragioni di profitto, di denaro.

Nel romanzo ho avanzato una critica feroce alle pale eoliche; io tengo a precisare che non sono contrario a priori all’energia eolica, che riconosco chiaramente come una delle più pulite, ma bisogna studiare con criterio dove impiantarle. Davanti all’Asinara? Ad un bellissimo mare? Lusingando i proprietari dei terreni con la promessa di 80.000 euro per 29 anni d’affitto, ad esempio? Mentre quelli che io chiamo “i signori del vento” si arricchiscono senza offrire garanzia alcuna? Magari perché hanno bisogno di certificati verdi perché coinvolti anche nel campo petrolifero… O lasciando che le ecomafie si insidino in ogni progetto, facendo sparire misteriosamente interi paesi o zone archeologiche, liberandole inspiegabilmente dai giusti divieti. Di questo bisogna discutere e prima ancora essere consapevoli. Il discorso politico del libro La collina del vento è la difesa della propria terra. Le ideologie sono crollate; non è su quello che dobbiamo confrontarci, scontrarci. Il tema fondamentale che davvero ci riguarda tutti, ma proprio tutti, a tutte le età, abitanti del Nord come del Sud, è reagire alle speculazioni. Difendere, proteggere la Terra che abitiamo.

E con queste parole si è concluso l’intervento di Carmine Abate, lasciando tutti piacevolmente colpiti dalla profondità e dalla simpatia di questo bravo autore e con delle riflessioni aperte da continuare a coltivare.

 

Annagloria Del Piano


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