In questi primi mesi del 2012 viviamo in una sorta d’interregno, forse dovuto all’enorme stanchezza che il ventennio berlusconiano ci ha provocato; in questo periodo, governato dai “tecnici”, non si parla più di scuola, soprattutto di quella vera fatta di ragazzi che apprendono e docenti che lavorano per favorire il loro apprendimento…
Un socio di Scuola e Diritti, con questo articolo, vuole riaprire il dibattito ed invitarci tutti a riflettere che la scuola con tutti i suoi problemi c’è ancora e che deve tornare ad essere, in passato parzialmente lo è stata, l’istituzione costituzionale che ha il compito di formare i cittadini.
Norberto Bobbio affermava: «Una democrazia senza valori comuni è una democrazia zoppa» (La Stampa, 24 dicembre 1995) e aggiungeva: «non vi può essere democrazia senza uomini che possiedano gli strumenti e la consapevolezza necessaria per farla vivere e crescere!». (Scuola e Diritti, Morbegno)
In difesa di storia e geografia,
per un diritto alla conoscenza
Nonostante l'handicap diseducativo di una classe esclusivamente maschile, ho un ottimo ricordo della scuola elementare. Contribuì a tutto questo la presenza di un maestro attivo, laico e dinamico, capace di stimolare l'intera scolaresca in un apprendimento arricchito anche da attività ludiche e teatrali nella vivacità dello studio.
Resto più che mai convinto dell'importanza formativa di questi miei primi cinque anni di esperienza scolastica. Una boccata di ossigeno dopo due anni soffocanti e tristi di asilo, sotto la rigida tutela delle suore dell'Angelo Custode. Imparando Italiano e Aritmetica scoprivo altre materie la cui passione mi è rimasta nel DNA dopo qualche decennio di vita quotidiana: Storia e Geografia. Non solo le fredde nozioni o le date significative studiate a memoria ma la comprensione delle dinamiche, degli avvenimenti del passato costituivano il fascino della Storia. I mille popoli abitanti il pianeta e l'evoluzione, il susseguirsi di dominazioni, rivolte e rivoluzioni o cambi di potere nei secoli. Con la Geografia nasceva invece la passione del viaggio, il desiderio di avventura, attraversando l'Europa e i continenti con la fantasia, immaginare gli abissi degli oceani, le grandi pianure e le invalicabili montagne, i fiumi profondi e i deserti infiniti, nell'inevitabile intreccio con le Scienze.
A un certo punto Storia e Geografia si mischiavano fino a confondersi, facendo emergere altre materie, altre lingue (non per forza l'inglese) e in questo contesto Italiano e Aritmetica facevano quasi da contorno, valorizzandosi comunque nell'indispensabile rapporto con il resto della didattica.
Certo, non erano tutte rose e fiori e i limiti degli anni Sessanta appena iniziati, la Seconda Guerra Mondiale era terminata da meno di vent'anni, si sentivano con tutto il loro peso. Gli orizzonti ristretti della scuola italiana di allora erano però la premessa di speranza e cambiamento per un futuro migliore.
Seguirono, infatti, decenni innovativi in cui la scuola elementare italiana con le sue classi miste e interetniche, i programmi dell'85 e il superamento riduttivo del maestro unico (non tutti vissero le fortune della mia classe), valorizzarono qualitativamente questa esperienza didattica, considerata fino a ieri tra le più avanzate al mondo. Uno dei rari primati dell'era moderna.
Questo patrimonio è ora andato a pezzi dopo i bombardamenti dall'alto dei vari Berlinguer, Moratti, Fioroni e Gelmini, distanti, in negativo, anni luce dalla democristiana Falcucci. Esponenti contemporanei di una casta politica che si cercò invano di rottamare negli anni d'oro delle contestazioni radicali, e mi riferisco soprattutto ai movimenti del '77. Contestazioni sicuramente più in sintonia con i valori costituzionali di chi, al governo o all'opposizione, pretese ieri e pretende oggi di rappresentare il Paese Italia.
Riportare la scuola pubblica agli anni Cinquanta con una riduzione di orari, di risorse, il ritorno del maestro unico, la limitazione di materie quali, per l'appunto, Storia e Geografia e altro ancora che non sto ad elencare significa attentare al diritto della conoscenza. Operare di fatto allo sviluppo di un pensiero unico, acritico e asettico, diventa così la premessa per l'ignoranza e l'indifferenza del futuro.
Cosa potremo pretendere dalle nuove generazioni? La cultura attraverso le demenzialità televisive o gli SmS?
In un mondo sempre più globalizzato e multietnico è demenziale ridurre lo spessore di materie come Storia e Geografia che restano il prezioso strumento culturale per meglio comprendere la realtà dei cambiamenti epocali in atto. È semplicemente assurdo che un bambino al termine della quinta elementare arrivi con la Storia dell'Impero Romano, e lo studio della Geografia non superi i confini delle regioni italiane.
E nelle scuole medie? Si approfondisce il periodo dell'Inquisizione e della Controriforma? Si argomentano i meccanismi politici e religiosi che portarono al Sacro Macello in Valtellina? Si parla della decimazione dei soldati italiani fucilati nella Prima Guerra Mondiale per il rifiuto di andare al macello? Si studia seriamente il nostro periodo coloniale quando Libia, Somalia. Etiopia, Eritrea e Albania erano considerati territori italiani? Perché i genocidi nel Fezzan e i Cirenaica, tanto per restare in Libia, restano assenti ingiustificati nei nostri testi scolastici?
Viviamo purtroppo in un Paese che non ha mai voluto fare i conti con il proprio passato poco glorioso, rimuovendo e cancellando i fatti scomodi e alimentando la retorica del buonismo italiano. Tutto questo ha sempre favorito un handicap culturale che, a parte le solite eccezioni che confermano la regola, è rimasto un forte limite al diritto di conoscenza e allo sviluppo critico.
L'affermarsi del pensiero unico è anche questo.
La Storia è una materia molto seria e capisco benissimo perché la si sta riducendo ai minimi termini. Comprendo con chiarezza i motivi per cui un'istruzione pubblica declassata e di pessima qualità non sarà mai in grado di formare individui responsabili orientati al libero pensiero, producendo piuttosto dei sudditi capaci soltanto di accettare passivamente quello che passa il convento.
Piero Tognoli
(per 'l Gazetin, aprile 2012)