– Roberto inizio questo nostro incontro riportando quanto mi scrivesti in merito alla copertina del tuo ultimo lavoro.
Jasmina… Neli… Maria… Diamanta… Mariana… Narcisa…
Dario, io e gli amici che si impegnano per i diritti del popolo Rom abbiamo incontrato, spesso in situazioni drammatiche, le Romnì… le donne Rom che rappresentano il cuore e l’unità della famiglia. Alle loro spalle e intorno a loro, dopo uno sgombero o un allontanamento da parte delle “forze dell’ordine”, paesaggi desolati e silenziosi. Il campo bonificato (distrutto) dalle ruspe e spazi aperti verso cui camminare ancora, alla ricerca di un riparo, prima che scenda la notte. La donna della copertina è lei, la Romnì, condannata dall’ostilità razziale ad aspettare (la riunione del nucleo familiare, il ritorno di chi era in giro per il manghel –l’elemosina– o degli uomini condotti in questura da zelanti poliziotti), per riprendere il viaggio. Un viaggio breve in direzione del posto più vicino dove rifugiarsi oppure un viaggio lungo, verso un’altra città, se nei dintorni, ormai, non vi è più possibilità di riparo. La nostra Romnì attende… ma è già pronta a partire insieme ai suoi bambini, al suo compagno, ai familiari e alla kumpanìa. Il nomadismo non esiste più. Esiste una marcia per la sopravvivenza che non si ferma mai.
– Almeno due quindi i piani di riflessione, uno pertinente alla donna come madre, centralità pronta ad accompagnare un cammino di sofferenza, e un altro individuabile nel suo volto senza età che viene a significare il sacrificio continuo di un esilio senza scampo. Se sei d’accordo puoi ampliare il discorso?
La cultura e le tradizioni dei Rom non hanno radici nella fertilità della terra, perché la terra non è mai ferma, sotto i loro piedi costretti a fuggire da un luogo all'altro, per fermarsi – ma solo temporaneamente – su terreni che sono quasi sempre brulli, ostili, avvelenati. Angoli di mondo emarginati come loro. Al centro della vita Rom, invece, vi è la donna, con il suo grembo di madre che è metafora di una nazione ideale, che non ha territorio compatto, ma sopravvive da secoli e secoli all'interno di un mondo avverso. La donna è custode dell'unità familiare, della lingua e delle leggi. A Pesaro ho vissuto con i Rom per più di due anni e non ho mai visto un capofamiglia assumere una decisione importante senza consultare la sua compagna. E se lei diceva no, nessuno riteneva più di intraprendere quell'impresa. Rom e Sinti sono comunità patriarcali, ma la donna è depositaria del loro destino e della loro anima, specie in seno alle tribù più antiche: i Vatrashi, i Kherutno, i Kaldarari, gli Zlatara, i Kolari, i Gabori, i Kazandzhi, i Pletoshi, i Korbeni, i Modorani, i Tismanari, i Lautari, gli Ursari, gli Spoitori...
La Romnì – la donna Rom – è consapevole del fatto che nelle sue vene scorre il sangue antico della sua gente. La scrittrice e poetessa Mariella Mehr, svizzera di nascita, ma Rom Jenische di origine, fu vittima nel suo paese delle politiche di sedentarizzazione forzata. Insieme ad altri 600 bambini, fu sottratta alla madre e consegnata a una famiglia adottiva. Il governo elvetico intendeva, attraverso quella procedura, annientare il nomadismo e le tradizioni Rom. Mariella, però, ritrovò l'orgoglio della propria razza e lo cantò nella sua poesia: «Spesso canta il lupo nel mio sangue / e allora l’anima mia si apre/ in una lingua straniera». Non era più in esilio, ma ritornava alla sua nazione.
– Quale il significato o significati del silenzio che a mio avviso esprime sempre valenze multiple?
Il silenzio non è assenza di parola, ma evoluzione della parola verso la pienezza del simbolo, dell'idea. I Rom comunicano con il linguaggio, ma anche con la musica e con il silenzio. La sera, a tavola, si tace e sono le espressioni dei visi a significare se la giornata appena trascorsa è stata felice o triste, se si è inquieti o in pace con se stessi, se si può sostare ancora un po' o è ora di partire. Il mio amico Jacob Vassover, forse l'ultimo artista Yiddish ancora in vita, testimone della Shoah, fu internato nel ghetto di Lodz, in Polonia, prima della deportazione ad Auschwitz. Oltre agli ebrei, i nazisti avevano rinchiuso nel ghetto numerose comunità Rom. Jacob suonava anche il violino e un giorno vide, oltre il cancello che divideva gli ebrei dai Rom, un ragazzo che suonava il suo stesso strumento, con un virtuosismo a cui non aveva mai assistito prima. Jacob e il giovane parlavano due lingue diverse; allora iniziarono a comunicare suonando il violino. Quando smisero di suonare, restarono a fissarsi in viso. Negli occhi del ragazzo Rom il giovane artista ebreo vide una pena infinita, come se fosse consapevole del destino di morte che colpiva il popolo ebraico, nonostante gli aguzzini occultassero la macchina dello sterminio razziale. Anche Jacob aveva gli occhi pieni di lacrime, perché gli ebrei di Lodz sapevano a quale sorte andavano incontro gli “zingari”. Nel loro silenzio, vibrava una solidarietà fraterna, la condivisione di una tragedia a cui nessuno di loro poteva sottrarsi. Ecco che cosa rappresenta, nella mia poesia, il “silenzio dei violini”. Non solo angoscia, ma anche infinito amore per la vita di tutti.
– I Rom in realtà sono stati sempre perseguitati. Il nomadismo unito alla lavorazione dei metalli che sembravano originare sortilegi sono stati giudicati dalla chiesa in primis come elementi negativi. È vero?
Sì, è vero. Quando, nel 1300, i popoli europei videro arrivare da Oriente le lunghe carovane di Rom, li definirono “discendenti di Caino”. La gente era sconcertata dalle loro pelli scure, dagli abiti sgargianti che indossavano, dalla lingua incomprensibile che parlavano, dalla presenza fra di loro di domatori e cartomanti. Intorno ai Rom sorsero innumerevoli leggende e dicerie, che in breve si trasformarono in pregiudizi e quindi in avversione. Anche la loro abilità nel forgiare o riparare i metalli fu presto oggetto di calunnie. Si diceva infatti che i chiodi con cui fu crocifisso Gesù fossero stati forgiati da fabbri Rom e che proprio a causa di quei manufatti tutto il popolo Rom fosse stato condannato a peregrinare per l'eternità, senza avere mai un luogo dove fermarsi e mettere su casa.
– Una domanda d’obbligo Roberto, cosa senti e come leggi le notizie riguardanti furti, rapine e sfruttamento attribuiti, qualche volta credo realmente, al popolo Rom? E poiché abiti a Milano… qual è la situazione?
I Rom, come tutti i popoli, hanno i loro artisti, i loro eroi e anche i loro ladri. Se non fosse così, non sarebbe un popolo, ma un coro angelico! Le calunnie che vengono rivolte oggi ai Rom sono, invece, le stesse che la propaganda nazista montò contro gli ebrei – e gli stessi Rom – alle soglie dell'Olocausto. Ho la fortuna di aver conosciuto centinaia di famiglie Rom, appartenenti a tutte le tribù e se vi è una costante che ho sempre rilevato, è il grande amore di questo popolo verso i bambini. “Tanti bambini, tanta gioia” recita un detto Rom. Ed è proprio così: le famiglie e l'intera comunità Rom dedicano un'attenzione speciale alla tutela dei bambini, cui vengono trasmesse fin dalla più tenera età le tradizioni secolari e le leggi di quel popolo. A Milano, come in altre città, le comunità Rom sono circondate da discriminazione e odio e spesso sono costrette a vivere di elemosina. Nessun programma socio-sanitario è previsto per loro, che si trovano nel totale abbandono e in una condizione di persecuzione quotidiana, braccati dalle forze dell'ordine e sgomberati dai luoghi in cui riparano e dove costruiscono rifugi di fortuna. La speranza di vita media di una persona Rom a Milano è di 40 anni, contro gli 80 dei milanesi. Un dato che spiega inequivocabilmente la realtà.
– È vero anche che nonostante la diffidenza nei confronti del popolo Rom sei stato accolto alla Feltrinelli a Milano da tantissima gente che ha dimostrato attenzione, partecipazione, empatia, commozione… Come leggi questa distonia con quanto abbiamo detto sopra?
Alla Feltrinelli di via Manzoni erano in programma due eventi: la presentazione del libro Il silenzio dei violini – che raccoglie le poesie sui Rom di Paul Polansky e mie – e la mostra “La vita di Rebecca”, che presentava al pubblico una serie di disegni della giovane artista Rom Rebecca Covaciu, che illustrano le fasi della sua giovane vita: gli sgomberi, le continue fughe da una baracca all'altra, da una città all'altra, ma anche i suoi momenti felici, come le feste, gli incontri fortunati, i premi vinti nei concorsi artistici. Il Liceo Artistico “Boccioni” di Milano, presso il quale Rebecca frequenta il primo anno, era fra gli organizzatori dell'evento, che rientrava nell'àmbito dei progetti messi in atto dall'associazione Il razzismo è una brutta storia. L'associazione collabora con le librerie Feltrinelli. Si trattava dunque di un ambiente protetto e di un pubblico consapevole dell'aspetto educativo dell'avvenimento. In ogni caso, tutto si è svolto in un'atmosfera intelligente e positiva ed è auspicabile che i politici intervenuti l'abbiano assorbita e passino da un antirazzismo di facciata a un impegno vero per difendere le minoranze perseguitate. Intorno alla libreria Feltrinelli, tuttavia, la città era la stessa degli ultimi anni: quella Milano che nel recente rapporto Unar sul razzismo in Italia risulta capitale dell'intolleranza.
– Da quanta fatica, viaggi, ricerche e amore della verità vengono tutte le documentazioni che hai donato al governo italiano?
Oltre alla mia vicinanza al popolo Rom e alle minoranze oggetto di persecuzione, dedico da tanti anni un impegno appassionato alla memoria della Shoah. Nel corso degli ultimi dodici anni ho acquisito una collezione di circa 200 opere d'arte realizzate da artisti scomparsi nei campi di sterminio nazisti o sopravvissuti alle persecuzioni. È una collezione unica in Europa, che preserva tante importanti opere d'arte provenienti dall'Olocausto, che altrimenti si sarebbero perdute. È stata una ricerca difficile, svoltasi in Europa, Israele, Canada, Stati Uniti, Australia, sulle tracce dei pittori assassinati nei lager e di quelli che hanno continuato a testimoniare l'orrore dello sterminio. Ho donato allo stato italiano la mia collezione, insieme a una biblioteca di libri rarissimi, tutti legati all'arte della Shoah. Le opere e i libri saranno accolti presso il Museo Nazionale della Shoah di Roma.
– Hai scelto la poesia per suonare le corde dei violini e restituire dignità ad un popolo… la poesia come la più alta delle arti, la più idonea a strappare dal silenzio realtà negate o debitamente nascoste. La tua è stata una voce forte e vitale… Te ne sei accorto, vero, durante la presentazione?
In genere, quando leggo in pubblico, amo alternare le emozioni e le atmosfere, per condurre l'uditorio all'interno di luoghi immateriali sospesi fra la coscienza e il mondo. Quando la mia voce racconta vicende drammatiche ed emblematiche, connesse ai diritti umani e alla civiltà, è importante che gli ascoltatori escano dallo stato mentale dell'indifferenza e del distacco. I testimoni dei massacri, li ho conosciuti. Le vittime di persecuzioni, le ho incontrate e ho vissuto accanto a loro. Ho visto esseri umani morire, ho visto bambini morire. Ho ascoltato la voce di chi ha subito torture, violenze, sevizie, stupri. Quando leggo in pubblico, quelle persone e le loro tragedie sono nel mio cuore e la mia voce deve vibrare alla stessa intensità del loro dolore, della loro testimonianza. Altrimenti una lettura è solo uno spettacolo, spesso anche noioso. Alla Feltrinelli, però, il clima, come ti ho spiegato, era particolare. L'odio, l'intolleranza, le divisioni si trovavano al di là delle pareti della saletta in cui parlavamo d'arte, di poesia e delle genti Rom e Sinte. Così ho deciso di concentrare il mio discorso sulla forza morale del popolo Rom, sul contributo civile e culturale che da ottocento anni offre all'Europa. E ho letto una poesia che rappresenta il modo che hanno i Rom di guardare il mondo, di accettare i cicli della vita, di pregare: il “Canto di un viaggiatore Ursaro”.
– Ora toccherà a te essere nomade con questo libro?
Ti sembrerà singolare, ma dopo tanto tempo di peregrinazione sulle tracce dei Rom, a contatto con la loro realtà che non ha la possibilità di mettere radici in alcun luogo, accanto a bambini, uomini e donne perseguitati eppure sempre pieni di speranza, da qualche tempo ritengo utile fermarmi con frequenza sempre maggiore. Ho una rete di collaboratori dislocata in tutto il mondo: attivisti umanitari che sono in grado di segnalarmi in tempo reale il verificarsi di drammi umanitari. Grazie a questa rete, passo un numero di ore sempre maggiore al computer, per mettere in atto, insieme agli altri difensori dei diritti umani del Gruppo EveryOne – di cui sono co-presidente – le strategie più idonee, sollecitando ora i governi nazionali, ora le istituzioni dell'Unione europea, ora le Nazioni Unite ad agire per salvare vite umane. Ma anche piccole azioni umanitarie come una colletta via internet, la ricerca di un medico o di un legale, il contatto immediato con autorità possono fare la differenza. Naturalmente non rinuncio completamente a essere “nomade”. Gli insediamenti Rom li frequento ancora. I profughi e i migranti in difficoltà li incontro ancora. Però non posso ignorare l'importanza di essere “stabili”, quando è necessario fornire un punto di riferimento ai perseguitati. Con il libro che Paul e io abbiamo scritto, si sarà contemporaneamente in movimento e fermi.
– Sono molto felice di averti conosciuto e di frequentarti, grazie Roberto di tutto...
Anch'io sono felice del nostro incontro e della nostra amicizia, che spero resista al tempo, perché mi arricchisce ed è piena di nuove armonie, come una bella poesia.