In principio c’è l’esperienza. Ovvero il complesso dei fatti e dei fenomeni acquisiti mediante la sensazione, elaborati e strutturati dalla riflessione, verificati attraverso l’esperimento. Cioè, ancora, la conoscenza diretta dei fatti e dei fenomeni ottenuta attraverso l’uso degli organi di senso. In principio dunque ci stanno i nostri sensi. Da questi sensi deriva, per l’uomo, tutta la conoscenza. Le cause dell’attività della mente (nonché fonti della conoscenza) sono: la sensazione e la riflessione. Tutto quello che avviene nella nostra mente deriva quindi dal solo dettato dei sensi. La ragione è limitata dall’esperienza. I confini dell’intelligenza sono segnati dal margine dei sensi. Fin dove giunge adesso la sensibilità, lì giungono le idee. Oltre la sensibilità non ci possono essere più idee e quindi non esiste più conoscenza e dunque non c’è più ragione né intelligenza.
John Locke (Wrington, 29 agosto 1632 – Oates, 28 ottobre 1704) in questo suo Saggio sull’intelletto umano (Introduzione di Pietro Emanuele, Traduzione, note e apparati di Vincenzo Cicero e Maria Grazia D’Amico, Bompiani, 2007) stabilisce perciò la prima indagine critica, osservativa ed ermeneutica dell’intelligenza umana. Lo scopo dichiarato del suo volume è quello di investigare le effettive possibilità umane. Rendere conto, cioè, dei luoghi e delle situazioni rispetto e nei riguardi dei quali la ragione solamente può arrivare e dirigersi. In questo senso, Locke alla fine perviene al riconoscimento precipuo di quei confini che sono propri dell’uomo. Di tutte quelle soglie oltre le quali l’intelletto degli esseri umani non può comunque andare. In definitiva, quello che qui Locke mette in questione è l’intelletto stesso. Quali sono le sue capacità? Quali sono le sue funzioni? Come è costituito? Quale è la genesi della conoscenza umana? Quale è il suo valore? Da che cosa essa è composta?
Le domande-base dalle quali egli dunque parte sono due: 1) che cos’è questo oggetto che mi trovo davanti?; 2) fino a dove esso può spingere il suo potere (dovuto alla configurazione esatta delle sue caratteristiche che tendono a individuarlo)? Si diceva che al principio c’è l’esperienza. Ma quello che attestano i sensi è comunque qualcosa che si trova e si produce al di fuori di noi. Che cosa c’è allora dentro l’intelletto? Locke afferma che «il termine migliore per designare ciò che è oggetto dell’intelletto quando un uomo pensa» è l’idea. In altre parole: «designo con la parola idea qualunque cosa la mente percepisca in se stessa, o l’oggetto immediato della percezione, del pensiero o dell’intelletto». L’intelletto è dunque abitato dalle idee. Ora, «la mente non può mai ospitare un’idea che non abbia mai percepito». Ovvero: «le idee prodotte nella nostra mente sono introdotte dai sensi come semplici e distinte». Tutti i contenuti della nostra attività mentale derivano ora dai sensi. Ecco spiegato il legame tra il mondo esterno e ciò che costituisce lo specifico della nostra mente. Da una parte Locke risponde alla prima delle sue due domande: i contenuti della mente sono le idee. E dall’altra parte, risponde anche alla seconda: il limite dell’intelligenza è l’esperienza. In queste pagine, Locke, in realtà, sta riformando e riformulando completamente il concetto stesso di ragione per come si è trasmesso alla sua penna da tutta una tradizione risalente direttamente e principalmente a Cartesio. Il pensatore di La Haye en Touraine, infatti, aveva suo tempo postulato l’esistenza di una ragione onnipotente, infallibile e unica. Locke, adesso, sta iniziando a dimostrare che la nostra facoltà di pensare (stabilendo rapporti e legami tra i concetti) e di giudicare (discernendo il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, ecc.) possiede un’unità che non è affermata, data e garantita una volta per tutte oltre che definitivamente. Piuttosto, gli elementi che la compongono producono una globalità da garantire e da strutturare attraverso una apposita disciplina. Da questo punto di vista la ragione non è più infallibile e perfetta. Essa infatti non produce più da sé i propri principi e quello stesso materiale (i suoi contenuti) di cui si serve. Le idee, inoltre, sono in numero limitato per via dalle loro provenienza dalla sfera sensibile. Ed ancora: esse frequentemente sono oscure e suscettibili di una mancanza di prove che riescano a renderle e le possano rendere effettivamente reali. È proprio su questo punto che si situa la critica e il distacco da Cartesio di cui Locke si fa interprete e protagonista. Afferma il filosofo inglese: «è opinione fondata fra alcuni uomini che esistono nell’intelletto alcuni principi innati, certi concetti originari… caratteri, per così dire, impressi nella mente dell’uomo, che l’anima riceve agli albori della sua esistenza e porta con sé nel mondo». Fra questi uomini vi è sicuramente Cartesio. Esistevano, dunque, per il filosofo del Discorso sul metodo alcune idee che nascevano direttamente ed insieme con l’uomo; la mente era piena di qualcosa fin dal momento della sua venuta al mondo; l’uomo scaturiva già con delle conoscenze precostituite. In questo senso, la ragione degli esseri umani si poteva dunque dire onnipotente: nel senso che essa era già formata, completa, compiuta e quindi capace pienamente di interfacciarsi con il mondo. Ovvia è la considerazione (che si può certamente estendere anche a Cartesio) relativa ad almeno tre ordini di questioni: 1) perché l’uomo nasce già con questi principi innati?; 2) come mai questi principi innati sono capaci di comprendere la realtà?; 3) come mai la realtà si piega alla capacità ermeneutica di questi principi innati? Ma andiamo ancora un po’ avanti.
Per Locke, a differenza che per Cartesio: «a osservare attentamente… si scopre che la conoscenza relativa alle idee non è innata, bensì acquisita: infatti le idee impresse per prime nella mente derivano dagli oggetti esterni con cui i fanciulli hanno interagito fin dal principio e che perciò sono quelli che con maggiore frequenza hanno prodotto impressioni sui loro sensi». Cioè «innanzitutto i sensi introducono nella mente idee particolari e arredano quel locale ancora vuoto; e quando essa acquisisce gradatamente familiarità con alcune di queste idee, allora vengono collocate nella memoria e vengono attribuiti loro dei nomi. In seguito la mente, avanzando con un procedimento di astrazione, apprende per gradi l’uso di nomi generali. In questo modo la mente comincia a essere fornita di idee e linguaggio, materiali con cui esercitare le sue facoltà discorsive, e l’uso della ragione diviene quotidianamente più visibile nella misura in cui aumentano questi materiali su cui essa lavora». Non possono cioè esistere idee innate perché innanzitutto anche se esistessero quegli archetipi, sui quali possa concordare tutto il genere umano, «comunque non si sarebbe dimostrato che tali verità siano anche innate». Ed inoltre «mi sembra quasi contraddittorio affermare che ci sono verità impresse nell’anima che però questa non percepisce o non comprende affatto, poiché l’atto dell’imprimere, se mai significa qualcosa, non è altro che consentire a certe verità di essere percepite». Ma invece è inevitabile che, nella vita, esistano dei casi particolari (a causa dei quali la nozione «tutto il genere umano» perde la propria autenticità ed il proprio valore) all’interno dei quali accade che alcune «verità» possano benissimo essere e trovarsi nell’anima ma non possano altrettanto indubitabilmente venire «percepite» da certi determinati individui. Infatti, «d’altra parte, se i fanciulli e gli idioti hanno un’anima, se hanno una mente con in se stessa tali impressioni, devono inevitabilmente percepire tali principi e necessariamente conoscere e dare il proprio assenso a quelle verità: ma poiché ciò non accade, è evidente che tali impressioni non esistono affatto». Locke estende quindi questo suo discorso anche ai «principi morali», i quali, a suo giudizio: «hanno ancor meno titolo a qualificarsi come innati». Per cui «se queste idee non sono innate, deve esserci stato un tempo in cui la mente era priva di questi principi; allora essi non sarebbero innati, bensì conoscenza acquisita da una fonte differente». Ed ecco allora che «supponiamo… che la mente sia, come si suol dire, un foglio bianco, privo d’ogni carattere, senza alcuna idea. In che modo giunge ad esserne fornito?... Da dove ha ricavato tutti gli elementi della ragione e della conoscenza? Rispondo a tutte queste domande con una sola parola: dall’esperienza; in essa trova fondamento tutta la nostra conoscenza, e da lì proviene essenzialmente». In realtà le domande che potremmo porci sarebbero anche altre: perché la mente nascerebbe come «un foglio bianco»? In quale esatto momento essa percepirebbe la prima idea ricavata dall’esperienza? Che cosa succederebbe in quel istante nella mente stessa? Quale è la differenza a livello neurologico tra una mente vista come «un foglio bianco» e una mente «riempita» da un’idea acquisita? E a livello ontologico o metafisico? Ma, soprattutto: per quale motivo ha inizio tutto questo processo? Perché si acquisisce la prima idea derivata dai sensi? È necessario che la mente debba conoscere? E se sì: perché è necessario? Perché la mente non potrebbe rimanere per sempre «un foglio bianco»?
Locke intanto ci ha detto qualcosa. Egli infatti ha affermato che il punto oltre al quale l’intelletto non può arrivare è costituito dai sensi. E per demarcare questo spazio egli ha così prodotto una dimostrazione di tipo logico (la quale fa scaturire una serie di conseguenze gnoseologiche). Ma quali sono gli «elementi» da cui è composto il nostro pensiero? Essi, come abbiamo detto sopra, sono due. Nelle parole di Locke: «quando i nostri sensi si pongono in relazione con particolari oggetti sensibili, introducono nella mente molte percezioni distinte delle cose, coerentemente agli avariati modi con cui quegli oggetti impressionano i nostri sensi… A partire dagli oggetti esterni, essi introducono nella mente ciò che vi produce quelle percezioni. Chiamo sensazione questa importante fonte della maggior parte delle idee in nostro possesso, che dipende interamente dai nostri sensi e, attraverso questi, giunge fino all’intelletto». Ma vale anche che: «l’altra fonte dalla quale l’intelletto attinge, tramite l’esperienza, per fare provvigione di idee, è la nostra percezione interiore delle operazioni che compie la nostra mente quando si occupa delle idee di cui è fornita, operazioni che, una volta divenute oggetto di riflessione e di analisi della nostra anima, pongono all’intelletto un nuovo genere di idee, che mai avrebbe potuto ricevere sulla sola base degli oggetti esterni». Per cui «come chiamo l’altra sensazione, chiamo questa riflessione, poiché le idee che ci fornisce sono solo quelle ottenute dalla mente riflettendo in se stessa sulle proprie operazioni». Abbiamo a questo punto tutti i mezzi per pervenire finalmente alla conoscenza (che è lo scopo e la funzione dell’intelletto). Intanto «la percezione è il primo passo e il primo gradino della conoscenza». Essa «consente l’ingresso di tutta la conoscenza alla nostra mente». Ma una volta che sia stato registrato l’ingresso di questa conoscenza nella nostra mente, come viene caratterizzata la sua natura e ragione? Quale è il suo contenuto più proprio? «Il materiale di tutta la nostra conoscenza» sono le idee semplici. Ora «tutte le nostre idee semplici giungono alla nostra mente solo tramite la sensazione e la riflessione». E «tutto quello che abbiamo nei nostri pensieri (se pensiamo a qualcosa o intendiamo dire qualcosa) o quel che vorremmo significare ad altri quando usiamo parole designanti relazioni, altro non sono che idee semplici, o insiemi di idee semplici confrontate l’una con l’altra». Cioè «le idee semplici… sono ricavate tutte dalle cose stesse, e la mente non ne può possedere in misura maggiore né possono essere di genere differente da tutto ciò che le viene suggerito dalla sensazione e dalla riflessione». Esistono però anche delle idee complesse. Esse sono «combinazioni di idee che la mente, a seguito di una libera scelta, riunisce insieme senza considerare se in natura possano avere una qualsiasi connessione». Ovvero, tali oggetti «sono combinazioni di idee semplici, poste insieme e unite sotto l’indicazione di un nome generale».
Questi sono dunque i materiali della nostra conoscenza. Per la quale vale che «l’intera estensione della nostra conoscenza o immaginazione non si spinge oltre le nostre idee che sono limitate al nostro modo di percepire». Ma, in sé e per sé, che cos’è la conoscenza? Essa, per Locke «consiste nella percezione dell’accordo o del disaccordo di due idee quali che siano, e la sua chiarezza e la sua oscurità consistono nella chiarezza e nell’oscurità di quella percezione, non nella chiarezza e nell’oscurità delle idee stesse». Questa «percezione» deriva, o può derivare, da tre tramiti, che sono anche tre mezzi: 1) dall’intuizione, «ossia dal raffronto immediato tra due idee qualsiasi»; 2) dalla ragione, «ossia dall’esaminare l’accordo o il disaccordo di due idee mediante l’intervento di certe altre idee»e 3) dalla sensazione, «ossia dal percepire l’esistenza di cose particolari». Tutta la nostra cognizione e contezza proviene perciò dall’esperienza e trova nell’esperienza il proprio saldo fondamento. L’empirismo di Locke non potrebbe essere qui spinto più oltre.
Gli altri punti rilevanti del Saggio sull’intelletto umano riguardano le considerazioni del filosofo inglese sul linguaggio, la verità (e la falsità), la volontà, la libertà e la fede. Intanto: «le parole, a seguito di un uso prolungato e familiare… giungono a suscitare negli uomini determinate idee, in modo così costante e pronto da indurci a supporre che esista tra parole e idee una connessione naturale. Ma è evidente che le parole significano solo le particolari idee degli uomini che compiono ciò a seguito di un’imposizione perfettamente arbitraria, poiché spesso essi non riescono a suscitare in altri (anche in coloro che si servono del medesimo linguaggio) le stesse idee di cui assumiamo che tali parole siano il segno». Una volta definita ed acclarata la natura perfettamente soggettiva, gratuita e irregolare del linguaggio umano, Locke introduce quindi i concetti di verità/falsità solo in relazione alle enunciazioni e ai costrutti. «Mi sembra che la verità, nel significato proprio della parola, non significhi altro che l’unione o la separazione dei segni, in quanto le cose da essi designate sono reciprocamente in accordo o in disaccordo fra loro». «La verità e la falsità appartengono, propriamente parlando, solo alle proposizioni». Risolvendo tutta la questione formale all’interno di una architettura di segni arbitrariamente edificata Locke si può porre perciò esplicitamente come un diretto esponente del nominalismo per quanto riguarda i problemi linguistici e della comunicazione. Il che va a sommarsi al suo rigido empirismo gnoseologico nelle questioni di teoria della conoscenza. «La libertà non può esistere là dove non esiste pensiero, volizione, volontà; ma può esistere pensiero, volontà e volizione là dove non ci sia libertà». Ed un simile mondo senza libertà - all’interno del quale può esistere il pensiero (che scaturisce sempre dall’esperienza) - è appunto quello delineato in queste pagine da Locke. («Senza libertà» nel senso che il contesto di ogni apprendimento è sempre delimitato da quello che percepiscono i sensi e solo da quello). Ma c’è ancora un ultima considerazione da fare a questo proposito: «l’intuizione e la dimostrazione sono i due gradi della nostra conoscenza, ciò che esula da uno di essi, sebbene accolto con sicurezza, si riduce a fede o opinione, ma non diviene conoscenza, almeno nel caso di tutte le verità generali». Locke, in sostanza, concede un proprio spazio vitale alla «fede» e all’«opinione» sia pure all’interno di un apertura che tiene sempre fermo e si riferisce al suo rigoroso empirismo. I risultati dell’affidamento alla fede, infatti, non fanno parte delle comunicazioni scientifiche degli uomini (che si basano sempre sul dettame dei sensi). «Per le nostre idee semplici… che sono il fondamento e la sola materia di tutte le nostre nozioni e della nostra conoscenza, noi dobbiamo dipendere completamente dalla nostra ragione… e non possiamo ricevere queste idee, neppure una sola parte di esse, dalla rivelazione tradizionale». In definitiva «non possiamo avere conoscenza che vada al di là delle idee che possediamo». Per cui «fede» e «opinione» se pure sono qualcosa, non sono certamente «conoscenza» e quindi non rientrano nell’analisi che Locke sta compiendo in questo suo libro. Non fanno parte delle «capacità» e delle «prerogative» dell’intelletto. Fissando alla fin fine i contenuti e la portata dell’intelletto alla sola esperienza, Locke ci ha così consegnato l’idea di una ragione del tutto sminuita. Una ragione certamente ridotta (per quanto riguarda le proprie finalità e caratteristiche) rispetto a quella cartesiana. Ma egli ci ha anche regalato, in questo modo, una nozione di intelligenza che non è più vaga e generica, ma viceversa ben circoscritta e delimitata. In questa direzione, John Locke può essere certamente considerato come uno dei padri nobili della grande tradizione della filosofia della mente che giungerà nel Novecento sino alla definizione ed alla ricerca relativa all’Intelligenza Artificiale (IA). Interessante è, per noi, far rilevare che al di fuori degli orli tracciati da Locke non c’è intelletto, non c’è ragione. Tuttalpiù risiedono in queste lande «fede» ed «opinione». Ma, a causa della loro stessa definizione, tali luoghi metafisici non sono dunque da questo momento in poi più oggetto peculiare della filosofia intesa nel suo senso più generale. La realtà influenza quello che noi possiamo pensare. L’uomo nasce ora già condizionato e situato. Il suo vincolo e la sua congiuntura è l’ambiente nel quale egli si è trovato a stare. In questo senso potremmo anche dire che Locke sostituisce alla condizione di partenza dell’innatezza (cartesiana) quella della determinazione e della esatta configurazione di un perimetro culturale. L’uomo, però, non è più un essere creatore e plasmatore della realtà. Al contrario, egli è disegnato e progettato dalla realtà a sua immagine e somiglianza; nel modo che alla realtà stessa appare il più consono e il più efficace ai propri scopi e alla propria costituzione. L’uomo nasce quindi già prodotto in un certo modo (anche se gli elementi di questa conformazione non sono insiti in lui ma nella esperienza; cioè nel suo rapporto - ottenuto attraverso i sensi - con il resto del mondo esterno). Abbiamo qui adesso a che fare non più con un onnipotente soggetto che tutto prevede e tutto dispone a proprio piacimento ma con un essere umano piccolo, stentato e parziale. La costante considerazione di Locke in riferimento agli esseri che popolano questa Terra è dunque fondata e permeata da un pervicace realismo e da una profonda obiettività. Ma per quale motivo Locke arriva a postulare tutto questo? L’intento del suo libro, egli ce lo dice già in apertura, è il seguente: «se possiamo scoprire fino a dove l’intelligenza può estendere la sua capacità di comprensione, fino a che punto ha la facoltà di pretendere l’indubitabilità, e in quali casi può solo giudicare e formulare ipotesi, ebbene, noi potremo imparare ad accontentarci di ciò che in questa condizione è alla nostra portata». Lo scopo di Locke è dunque qualcosa di pratico: una attenzione alla guida della condotta umana che si riverbera, poi, sul resto giungendo a diventare anche un motivo teorico. E questo perché in quell’«accontentarci» sono contenuti anche tutti i poteri e gli attributi della ragione oltre che la sua disposizione.
Per quanto riguarda il successo e la diffusione del Saggio nel periodo seguente alla data della sua pubblicazione (1690), c’è da dire che esso rappresentò un vero e proprio «presupposto teorico» (dalla «Introduzione» di Pietro Emanuele) per l’ Illuminismo francese. L’opera di Locke, anche ai giorni nostri, ha del resto anticipato molti temi della filosofia della mente e del linguaggio. Rimangono come questioni ancora aperte tutte le domande che si sono indicate sopra e che, per la maggior parte, non hanno ricevuto una risposta esplicita nel volume di Locke. In ogni caso, questo libro si configura, nella sua globalità, certamente come un caposaldo dell’epistemologia contemporanea oltre che, naturalmente, dell’approccio razionalistico alla soluzione dei problemi.
Gianfranco Cordì