Giuseppe Corte si presentò alla celebre casa di cura a sette piani, dantescamente distribuiti a seconda della gravità, dove non si curava che quell’unica malattia. Il tristo eroe buzzatiano, nemmeno c’è bisogno di dirlo, in un percorso anti-iniziatico che dalla luce conduce dritto dritto alle tenebre, entratovi con una «leggerissima forma incipiente», si ritrovò a sprofondare, tra errori e malintesi, all’orrendo primo piano, al reparto moribondi.
Ma come mai la stanza si faceva improvvisamente così buia? Era pur sempre pomeriggio pieno. Con uno sforzo supremo Giuseppe Corte, che si sentiva paralizzato da uno strano torpore, guardò l’orologio, sul comodino, di fianco al letto. Erano le tre e mezzo. Voltò il capo dall’altra parte, e vide che le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce.
Alle tre e mezzo, circa, di ieri pomeriggio, persiane altrettanto opache chiusero il passo alla luce a un ragazzo non meno intorpidito del buon Giuseppe. Persiane non lignee, ma organiche: i mobili veli membranosi esternamente ricoperti dalla cute e internamente dalla congiuntiva, dai più grossolanamente denominati palpebre, cedevano finalmente alle avances di sedanti neurolettici. Il ragazzo, ventenne, si alzò da una poltrona del reparto psichiatrico e si avviò verso il suo letto. Va bene che ascoltiate, disse mezzora prima, durante la pausa sigaretta, voglio che sappiate quello che mi sta succedendo. Parlava ad uno scarno uditorio: un padre imbarazzato, una ragazza ed un uomo nella sua stessa situazione, la sedia vuota di una madre che attendeva fuori, lo scrivente ed altri due “esterni”. Qui sto impazzendo: lo disse probabilmente senza ironia. Ogni giorno che passo qui peggioro. I sette piani di Buzzati vengono interiorizzati: ogni giorno, ogni puntura, ogni pastiglia, un passo verso il basso, sempre più lontano dal luminoso settimo piano, «tranquillo, ospitale, rassicurante».
Fisico sportivo da scalatore, occhi intelligenti, ascoltava suo padre dirgli che bisogna aver fiducia nei medici. E d’altronde, come e perché non aver fiducia in chi, contro la tua volontà e senza motivazioni dettate da necessità urgenti e reali, ti rinchiude e somministra farmaci che si limitano a stordirti e ad attenuare i sintomi di un problema che non senti senza comunque poter risolvere alcunché, nemmeno in teoria, mentre in pratica affievoliscono fino ad annientare la tua volontà, comportando, oltre che piuchepossibili danni a medio e lungo termine (tra cui discinesia tardiva, parkinsonismo, acatisia), la possibilità di creare (tale possibile effetto è detto “paradosso”) lo stesso problema combattuto?
Sto impazzendo disse infatti il ragazzo, dopo giorni passati forzosamente nell’ospedale-carcere, senza aver fatto male a nessuno (ché, infatti, non c’è più bisogno d’esserci effettivo o potenziale pericolo per poter rinchiudere e sedare una persona: quella è una visione, ci spiegò un medico, da tempo superata, addirittura ottocentesca), drogato e trattato come un pazzo: ma le parole impastate d’un pazzo valgono quel che valgono. E ben si può definire pazzo l’internato in un reparto psichiatrico. E tra i pazzi, tra tutti peggiore è quello che non si riconosce come tale.
Immaginiamo ora un uomo costretto in un letto, obbligato a riempirsi d’aspirina, e di altri farmaci contro gli effetti collaterali derivanti dall’uso massiccio dell’aspirina, per poter tollerare un malditesta che proprio non sente, per un periodo di tempo a discrezione di chi invece è convinto che ce l’abbia. L’unica soluzione? Ammettere di avere il malditesta (che nel frattempo, probabilmente, sarà pure venuto), ammettere di sentire gli effetti benefici della terapia, promettere di continuarla in saecula saeculorum e, soprattutto, che non si farà più niente per negare in futuro tale fastidioso problema. Che è cronico, e di per sé non guaribile con l’aspirina, che al massimo può attenuarne un po’ il dolore.
Che nessuno ancora ci parli del surrealismo d’un Buzzati, d’un Benni, d’un Kafka: surreale sarà, semmai, quel visionario d’un Verga.
Francesco Ghilotti