Gli attuali conflitti armati producono ormai il 90% di vittime fra i civili (dati delle Nazioni Unite), in maggioranza donne e bambine/i. Donne e bambine negli scenari di guerra sono soggette a svariate forme di violenza sessuale, spesso agite sistematicamente per raggiungere scopi militari o politici. Le donne sono le prime a soffrire per il crollo delle infrastrutture, mentre lottano per aver cura delle loro famiglie e tenerle insieme. Anche quando la guerra è finita, l'impatto della violenza sessuale persiste: gravidanze indesiderate, malattie a trasmissione sessuale, stigmatizzazione. E le aggressioni sessuali possono continuare o persino aumentare in un dopoguerra, alimentate dall'impunità. A braccetto con la discriminazione e le leggi che sanciscono diseguaglianza, la violenza sessuale impedisce alle donne di accedere all'istruzione, di diventare economicamente indipendenti e di partecipare alle decisioni collettive.
E sebbene contribuiscano in maniera decisiva alla costruzione di pace - come il conferimento del Premio Nobel per la Pace ha riconosciuto quest'anno - continuano ad essere scarsamente rappresentate nei processi formali: nelle più recenti negoziazioni post-conflitto le donne sono state meno dell'8% dei partecipanti e meno del 3% dei firmatari, e nessuna donna è stata investita del ruolo di mediatrice nei colloqui di pace sponsorizzati dalle Nazioni Unite. Naturalmente questo serve a non rispondere alle loro preoccupazioni: la violenza sessuale e di genere che subiscono, i diritti umani che sono loro negati.
Il militarismo è un'ideologia che privilegia la risposta violenta alle controversie e la “superiorità” maschile, e non si limita a sfilare in parata il 4 novembre: influenza il modo in cui vediamo le nostre famiglie, i nostri vicini di casa, le società di cui siamo parte, popoli e paesi diversi dai nostri. Influenza persino il modo in cui vogliamo essere pacifisti (o crediamo di esserlo): troppe persone credono ancora che la pace sia qualcosa da ottenere esclusivamente “fuori” e non cominciano mai a costruirla nelle proprie case e nelle proprie relazioni.
Il militarismo diffonde armi “leggere” come droga per la sicurezza, e le donne muoiono di queste armi domestiche; idealizza ed esalta il combattimento come caratteristica degli “uomini veri”, e le donne muoiono per mano di questi esemplari di successo della mascolinità; occupa i territori con le sue infrastrutture, distruggendo tutto ciò che può ostacolarlo, e attorno ad esse la violenza sessuale si diffonde a macchia d'olio: il militarismo non può riconoscere una donna se non come “riposo del guerriero” o “bottino di guerra”.
Ogni vittima ha il volto di Abele, e la maggioranza delle vittime ha un volto di donna.
Maria G. Di Rienzo
(da Telegrammi della nonviolenza in cammino, 17 ottobre 2011)