Questo commento di Emma Bonino sull'assegnazione del Nobel per la Pace 2011 è stato pubblicato dal Corriere della Sera di sabato 8 ottobre.
Dire che sono contenta è banale, ma vero. Sono molto contenta. Perché se pure qualche rumore sulla possibilità che il premio Nobel per la Pace potesse essere conferito a Ellen c’era, la competizione è stata difficile fino all’ultimo. Con lei, Ellen Johnson Sirleaf, ho lavorato un po’ di anni fa: era mia collega nell’International Crisis Group. Era il periodo in cui era in esilio a Washington, dopo l’arresto e la galera negli anni Ottanta seguiti al colpo di Stato; spinse l’organizzazione a occuparsi di più di Africa e delle dittature.
Ma quello che mi fa più contenta è la motivazione di questo Nobel, che è rivoluzionaria. Non solo afferma che senza le energie e la creatività del 50 per cento della popolazione mondiale non si va da nessuna parte. Ma premia la scelta, da parte di queste tre donne, della nonviolenza declinata in modi diversi, certo, nelle diverse aree del mondo. Da radicale per me è un principio fondamentale. Infine, e questo si vede soprattutto nella scelta dell’attivista liberiana Leymah Gbowee, si premia la riconciliazione post-dittatura. Lei, cristiana, ha fatto un’associazione con le donne musulmane, superando le diversità religiose in nome del bene del suo Paese. Mi ricorda, con tutte le diversità del caso, il Nobel del ‘76 attribuito alle attiviste nord irlandesi Betty Williams e Maired Corrigan che avevano fondato l’associazione Women for peace (donne per la pace), con le donne cattoliche e protestanti insieme.
Ellen Johnson Sirleaf è riuscita a riappacificare la Liberia dopo l’era di Taylor. E stata inflessibile nel chiedere l’estradizione del presidente, accusato dal Tribunale speciale per la Sierra Leone dei crimini contro l’umanità commessi durante la guerra civile in quell’infelice Paese (fomentata dall’allora presidente liberiano Charles Taylor). E ripenso con orgoglio oggi quanto noi radicali con Non c’è pace senza giustizia abbiamo lavorato in sinergia con Ellen, per l’istituzione di quel tribunale ad hoc, cui pochissimi credevano. Da presidente, poi, ha condotto con saggezza e moderazione, così come ha fatto anche Mandela per il Sudafrica, la transizione del suo Paese. Ha istituito una commissione di riconciliazione per valutare i crimini commessi e confessati, senza pena di mrte, in modo che potesse prevalere la giustizia sulla vendetta nel chiudere un’epoca sanguinosa della Liberia e guardare avanti.
Il Nobel di quest’anno è un riconoscimento a generazioni, culture, provenienze etniche e religiose diverse. Tawalkol Karman è una ragazza, Leymah Gbowee quasi una quarantenne, e Ellen una settantenne.
Sono donne che provengono non solo da Paesi e zone del mondo diverse, una è musulmana, una, Leymah, è cristiana e Ellen non usa far riferimento pubblico ad alcuna religione. Tawakkol Karman è un’«islamista» con delle contraddizioni positive, non appartiene all’area liberale della primavera araba. Ma è un’islamista sui generis, non interamente velata, come usa diffusamente in Yemen. Ed è la prima donna araba, di qualsiasi disciplina, insignita del Nobel.
Io spero che le motivazioni di quest’anno facciano riflettere tutto il mondo. Non si è più premiata la diplomazia (basti pensare al Nobel di Kissinger o Arafat, ma anche a quello di Martti Athisaari, o addirittura a quello a Obama), la soluzione classica dei conflitti. Si riconosce e si premia un elemento diverso: le donne, svantaggiate ovunque nel mondo, in posti dove si è o si è stati sull’orlo della guerra civile, con determinata nonviolenza cercano di riportare la legalità, il rispetto dei diritti della persona, la democrazia.
Ieri dopo aver letto la notizia, passando nei corridoi del Senato, mi sono ritrovata a sorridere ai colleghi maschi, scherzando ma non troppo: «Rassegnatevi e fate di necessità virtù». A noi donne dico: «È un momento importante, facciamone tesoro».