«Vienna è la città delle leggende che funzionano. I maligni sostengono addirittura che le leggende siano l’unica cosa che funzioni a Vienna […] A Vienna infatti le cose non vanno in maniera tale per cui la realtà di un fatto pian piano sbiadisce e si trasforma in leggenda. A Vienna la leggenda si evolve diventando realtà […] [e] la leggenda di gran lunga più complessa è il caffè viennese». Questo scrive nel suo Traktat über das Kaffeehaus [Trattato sulla casa da caffè] del 1959 Fridrich Torberg, prosatore che nella capitale danubiana era nato nel 1908 e dove, dopo l'esilio americano, era tornato nel 1951 per risiedervi fino alla morte nel 1979. Come da noi esistono innumerevoli varianti di caffè, inteso come bevanda, anche a Vienna solo l’intenditore sa che i nomi per definire questo infuso sono vari; come da noi, anche a Vienna il caffè nero può essere kurz, avvero ristretto, oppure gestreckt, ossia lungo, e se vi si aggiunge del latte si ottengono una “Melange”, o un “Brauner” o ancora una “Schale Gold”. E si può continuare a piacere con i nomi, se il caffè si corregge con della panna o del liquore.
Altrettanto diversificati quanto i tipi di bevande che vengono servite in un caffè sono anche i locali che oggi a Vienna si chiamano così: si va dalla caffetteria annessa ai grandi hotel della city, fino al piccolo e modesto Beisl, ubicato di solito in qualche viuzza decentrata; dalla più o meno prestigiosa Konditorei (pasticceria) del centro alle cosiddette Jausenstationen [stazioni per la merenda] nel verde dei boschi dei dintorni della capitale.
Una deformazione del caffè tradizionale è il cosiddetto Cafè-Restaurant, affermatosi negli anni venti, che ha denaturato la vera atmosfera del Kaffeehaus tradizionale, quello dello scorso fin de siècle per intenderci, dove non si trovava da mangiare se non qualche dolce o qualche tartina salata. Al caffè, infatti, non si andava allora per pranzare, come oggi succede, ma solo dopo pranzo, e non tanto per rifocillarsi concretamente, quanto piuttosto per alimentare il proprio spirito. La trasformazione del caffè avvenuta in seguito è uno dei tanti segni della vittoria del materialismo su una tradizione secolare. Ma non sono queste forme “deviate” di caffè viennese quelle che ne hanno determinato la peculiarità.
L’autentico Kaffeehaus viennese, finito in realtà con lo sfaldarsi dell’imperial-regia compagine, era un luogo in cui si riuniva regolarmente un certo numero di persone che condivideva analoghi interessi intellettuali, e per scambiarsi opinioni e giudizi sull’arte, la società e la politica, vi trascorreva intere mezze giornate; perché la prima condizione per essere Stammgast [avventore fisso] di un certo caffè, era quella di avere tempo, molto tempo, e magari sbrigarvi una serie di attività. Sì, perché il caffè viennese, come ha scritto nelle sue memorie Stefan Zweig, era «un’istituzione di tipo particolare [...] non paragonabile a nessuna istituzione analoga al mondo, [...] una sorta di club democratico, accessibile a chiunque per una modesta tazza di caffè, dove ogni ospite, in cambio di questo piccolo obolo, può starsene seduto per ore a discutere, a scrivere, a giocare a carte, [poteva] ricevere posta e soprattutto consumare un numero illimitato di giornali e riviste». Ancor oggi nei caffè viennesi il cliente trova appesi a una parete, infilati nelle tipiche aste di legno, i titoli più importanti della stampa quotidiana mondiale e, accatastati su qualche mensola, settimanali e riviste a profusione. Il tavolino tipico è rimasto in molti casi quello di un tempo: un piano tondo di marmo appoggiato su un treppiede nero e circondato da sedie impagliate prive di braccioli. Anche il personale di servizio indossa spesso come allora un abito nero e un papillon. Ma il pubblico di oggi è misto, non è più l’esponente di un preciso gruppo sociale.
Ogni caffè del tardo Ottocento ospitava invece circoli particolari, aveva una sua precisa fisionomia: i letterati frequentavano un determinato locale, i pittori un altro, ancora un altro i musicisti; i giornalisti avevano il loro caffè e lo stesso i politici e così via. Per quanto concerne la letteratura, alcuni di questi locali assunsero una particolare importanza perché frequentati da scrittori che si fecero portavoce di idee innovative o di nuove tendenze estetiche, magari importante da Parigi. Il primo fra tutti fu il famoso “Cafè Griensteidl” (riaperto da qualche anno in Michaelerplatz), dove attorno a Hermann Bahr si riuniva quel gruppo di poeti che è passato nella storia letteraria con il nome di “Jung-Wien” [Giovane Vienna]. Costoro non perseguivano un unico traguardo, ma nutrivano un unico credo, erano cioè convinti di vivere in un’epoca malata, dove la vita era così lontana dallo spirito da permettere il trionfo della menzogna. Il loro intento era di ovviare a questa scissione e di riportare le due sfere a quel “ricongiungimento” che è uno dei concetti fondamentali dell’estetica di Hugo von Homannsthal, il poeta più raffinato del gruppo. Il Griensteidl fu dunque la culla della letteratura viennese “moderna”, votata non tanto a fotografare a parole la realtà esterna, quanto a scandagliare gli spazi profondi dell’interiorità, a illuminare l’“ampio paese” dell’anima, per dirla con Arthur Schnitzler, altro esponente della Giovane Vienna. Drammaturgo e narratore innovativo, Schnitzler fu il primo scrittore di lingua tedesca che sganciò la narrativa e il teatro dai canoni del realismo ottocentesco per seguire nei suoi personaggi quello che in seguito gli anglosassoni definirono lo stream of consciousness, il flusso razionalmente insondabile della coscienza. Il rischio al quale questi autovivisezionatori si esponevano era quello di scivolare nel narcisismo e in uno sterile culto del sé. E proprio di questo il caustico Karl Kraus accusò i poeti del gruppo, quando nel 1897 il Griensteidl venne chiuso per lasciar posto a un istituto di credito. Nel suo mordace pamphlet Die demolierte Literatur [La letteratura demolita] Kraus si rallegrava che finalmente venisse destinato ad altro uso quel locale mefitico dove, a detta sua, gli scrittori di se ne stavano seduti a un tavolo talmente vicini gli uni agli altri da soffocare reciprocamente il loro fragile talento.
I giudizi sui caffè e la loro funzione erano già allora discordi. Per molti giovani assetati di letture e discussioni diverse da quelle imposte loro da una scuola dai programmi ingessati e dalla disciplina ferrea, il caffè rappresentava il luogo della libertà e dell’informazione aggiornata. Per altri esso era la causa di un progressivo intorpidimento intellettuale, un luogo dove la gioventù perdeva il suo tempo in inutili chiacchiere o in interminabili partite a biliardo o ai tarocchi. Ma con la chiusura del Griensteidl, diversamente da quanto Kraus aveva pronosticato, i giovani letterati non si dispersero, ma semplicemente si trasferirono a pochi passi, al “Cafè Central” di Herrengasse. Ancora oggi, a uno dei suoi tavolini sta seduto, benché solo in effigie, il letterato da caffè per eccellenza della grande Vienna: Peter Altenberg. Qui infatti lo scrittore clochard per anni ebbe il proprio vero domicilio, e qui tracciò sui bordi dei giornali molti dei suoi schizzi e bozzetti. Su questo caffè dalle alte volte che, stando a Franz Werfel, somigliava a un duomo, immerso però nei vapori profani di sigari e sigarette invece che in quelli sacri dell’incenso, Alfred Polgar sviluppò una sua teoria: «Il Cafè Central non è un caffè come gli altri, ma una Weltanschauung. [...] I suoi frequentatori sono in gran parte persone la cui misantropia è quasi altrettanto feroce quanto il loro bisogno di prossimo, è gente che vuole stare sola, ma per questo necessita di compagnia». Il tipico Centralist era a suo giudizio una persona alla quale né famiglia né partito né professione davano la certezza di essere una particella di un tutto, e che trovava nel caffè un surrogato di questa totalità, perché esso gli offriva la possibilità di imboscarsi e di dissolversi.
Altri caffè della Mitteleuropa sembra abbiano assolto a compiti analoghi anche al di fuori della capitale dell’impero; il caffè S. Marco a Trieste, per esempio, anch’esso retaggio asburgico, o il caffè Arco di Praga, frequentato da Franz Kafka, Max Brod e Franz Werfel, ma anche da tutta una serie di disperati e originali, immortalati nelle pagine di Johannes Urzidil e di Friedrich Torberg.
Dopo la Grande Guerra la vita nei caffè continuò vivace anche negli anni dell’inflazione e della disoccupazione. Ma con il crollo dell’impero molto venne meno anche dello charme tutto particolare di questo tipo di locale che, soprattutto nell’ultima fase dell’era di Francesco Giuseppe, svolse una chiara funzione aggregatrice. In un elzeviro del 1919, Joseph Roth, ebreo orientale trasferitosi nella metropoli danubiana, riassunse il disagio scatenato in lui dalla fine di un’epoca proprio osservando un caffè chiuso: «Questi tavoli ribaltati con le sedie capovolte che piangono gocce d’umidità sembrano disperatamente simili a un mondo alla rovescia, in cui tutto starebbe a testa in giù, se ci fosse qualcosa che avesse una testa».