Tendere con tutte le proprie forze verso qualcosa. In direzione di qualcosa. Inclinare. Desiderare, aspirare, propendere per qualcosa. Condursi in direzione di un piano da realizzare. In definitiva, portarsi-verso: è questa la caratteristica più rilevante dell’«esser-ci» dell’uomo secondo Martin Heidegger (Meßkirch, 26 settembre 1889 - Friburgo in Brisgovia, 26 maggio 1976) in questo suo Concetti fondamentali della metafisica. Mondo-finitezza-solitudine (a cura di Friedrich-Wilhelm von Herrmann, edizione italiana a cura di Carlo Angelino, Il Nuovo melangolo, 1999). Il volume in questione raccoglie e testimonia del corso di lezioni tenuto dal filosofo tedesco in quattro ore settimanali nel semestre invernale 1929/30 presso l’Università di Friburgo.
Ma perché, dunque, questo portarsi-verso? Intanto «noi chiamiamo l’essere dell’uomo esser-ci in un significato determinante, nel suo differire dall’essenza dell’esserci». Tale «esser-ci» possiede una connotazione particolare. «L’essenza dell’uomo, l’esser-ci in lui, è determinato dal carattere di progetto». Ciò che ci contraddistingue è perciò un’idea su qualcosa da farsi, un’intenzione, un proposito peraltro anche del tutto vago. Ma, nello stesso tempo, questo ingrediente può diventare un itinerario di lavoro ordinato e particolareggiato. Questo «esser-ci» - che è pur sempre ed ancora il nostro essere - attua un «progetto come struttura originaria del suddetto accadimento», la quale è «la struttura fondamentale della formazione di mondo». E questo perché l’autore di «Essere e tempo» illustra tre tesi: «1. La pietra (l’ente materiale) è senza mondo; 2. L’animale è povero di mondo; 3. L’uomo è formatore di mondo». Ma che cos’è il «mondo»? Dichiara ancora Heidegger: «il mondo è la manifestatività dell’ente in quanto tale nella sua totalità». In fondo, «essere a casa propria ovunque significa essere sempre e allo stesso tempo nella totalità. Noi chiamiamo questo “nella totalità”e la sua interezza il mondo. Siamo, e nella misura in cui siamo, sempre in attesa di qualcosa. Veniamo sempre chiamati in causa da qualcosa come la totalità. Questo “nella totalità” è il mondo». L’«esser-ci» dell’uomo è, così, convocato dal «mondo» al cospetto del suo più autentico senso. Ma non accade solo questo. Continua Heidegger: «siamo in cammino verso questo essere “nella totalità”. Noi stessi siamo questo essere-in-cammino, questo passaggio, questo “né l’una né l’altra cosa”. Che cos’è questo oscillare qua e là fra il né-né? Non l’una cosa e neppure l’altra, questo “si e no e si”. Che cos’è questa inquietudine del non? La chiamiamo la finitezza». Ed allora, infine, «in essa si compie in ultima analisi un isolamento dell’uomo nel suo esserci». Mondo, finitezza e isolamento sono, dunque tre «questioni» che «devono scaturire per noi da uno stato d’animo fondamentale». Heidegger dice giusto a questo proposito: «gli stati d’animo non sono qualcosa di solamente sussistente, bensì un modo e una maniera fondamentali dell’essere, e precisamente dell’esser-ci e in quanto tali dell’esser-via». Ancora una volta siamo risaliti a questo punto al nostro «esser-ci» che possiede la peculiarità del portarsi-verso. Nel caso in questione, la «noia profonda è lo stato d’animo fondamentale».
Da esso, come abbiamo visto, il filosofo di Meßkirch sviluppa tre «questioni», e cioè: «cos’è mondo? Cos’è finitezza? Cos’è isolamento?» Ma «metafisica è un interrogare concettualmente totalizzante, che, a sua volta, si rende esplicito attraverso le seguenti questioni: cos’è mondo, finitezza, isolamento?». Siamo giunti dunque dalle parti della filosofia in se stessa. «Il filosofare è… qualcosa che viene prima di ogni occuparsi-di, e rappresenta l’accadimento fondamentale dell’esser-ci, qualcosa di autonomo e di totalmente diverso dai comportamenti nei quali comunemente ci troviamo». Anche in questo caso (nel caso della metafisica) siamo catapultati nell’universo dell’«esser-ci» (che continua a mantenere immutata la propria connotazione di portarsi-verso). L’«accadimento fondamentale» di tale «esser-ci» è dunque la stessa metafisica. Dalla quale Heidegger isola tre domande. La risposta delle quali conduce di nuovo all’«esser-ci». Sembrerebbe un cerchio quasi perfetto, se non ché questo stesso «esser-ci», proprio nelle ultime pagine del libro, è caratterizzato come «progetto». Quale filosofia? Quale metafisica? Quale speculazione si dischiude a questo punto per l’uomo? Comunque, si ha a che fare con una sostanza che si dirige nei dintorni di alcune cose. Esiste un gesto propositivo e regolatore nei confronti di una realtà, sia essa data, presunta o del tutto implausibile. Questo portarsi-verso è la radice di ogni metafisica, della stessa essenza dell’uomo, del mondo, della finitezza, della solitudine, degli stati d’animo e di quello «stato d’animo fondamentale» che è la noia.
Heidegger traccia così un percorso che porta dritto allo schema, alla planimetria, alla disposizione. In sostanza quello che emerge a chiare lettere è l’esistenza - in ogni caso e qualsiasi situazione si consideri - di una mira, di un proponimento essenziale. Da questo volume emerge così l’ipotesi di una filosofia dello scopo piuttosto che di una filosofia del fine. Inquadrare l’essere umano come «progetto» vuole dire puntare tutto sul carattere di determinazione ulteriore di questo soggetto piuttosto che sull’aspetto afferente a una storia passata o ad un presente da decifrare. Grazie a questo anelito diretto al successivo piuttosto che al precedente, Heidegger ci consegna alla fine un testo aperto ad ogni possibile sviluppo ed interpretazione. Il portarsi-verso, stesso, presuppone dei momenti interlocutori, qualcosa che sta alle spalle, qualcos’altro che c’è, qualcos’altro ancora da attraversare o da raggiungere. Una filosofia in divenire o un divenire della filosofia. Un tentativo di costruzione delle cose e delle persone a partire dal mondo, dalla finitezza e dalla solitudine. Un tentativo di costruzione nel quale «i concetti filosofici, concetti fondamentali della metafisica, si sono rivelati come totalità concettuali: totalità concettuali nelle quali viene sempre interrogata la totalità, e che sempre coinvologono nell’interrogare colui che afferra concettualmente». Interrogare «la totalità» vuole dire investigare appunto mondo, finitezza e solitudine ma anche chiedere quale sia il «progetto» di tale comprensiva e globale condizione. Ovvero: quale sia il portarsi-verso dell’intero contesto su cui viene esercitata l’interpellanza. «Il progetto vincola – non al possibile e non al reale – bensì al render-possibile, cioè a ciò che il possibile-reale della possibilità progettata esige per se dalla possibilità per la sua realizzazione». Questo render-possibile è l’estremo limite di quella «totalità» (che non solo caratterizza il «mondo», ma anche la definizione stessa della «metafisica», afferma infatti Heidegger che egli sta tratteggiando «la caratterizzazione della metafisica come pensare concettualmente totalizzante, un interrogare che in ogni sua domanda, e non soltanto nei risultati, si interroga a proposito della totalità») ed è nello stesso tempo la risposta agli eterni «quesiti» che riguardano l’uomo e la sua destinazione su questa Terra. Heidegger, centrando tutta la propria attenzione sul carattere del «progetto», accenna una prima risposta in questo senso. L’uomo è un essere che trascende ogni momento se stesso, che non è mai qui e ora. Il mondo, se è possibile, «accade» sempre un po’ più in là. C’è inoltre una precisa volontà disciplinatrice e organizzatrice che sovrintende a tutte le cose. E c’è un tentativo di concretare e produrre un elemento che oggi ancora non c’è o non si è manifestato o non si è manifestato abbastanza.
Al termine della lettura di questo libro ci accorgiamo, dunque, di essere di fronte a un volume eccellente per le pregevoli analisi filosofiche (specie quelle relative agli «stati d’animo» e all’«organismo») e che ci consegna un Heidegger tutto proiettato verso un orizzonte da raggiungere e insieme da trasgredire. L’orizzonte del vagheggiamento.
Gianfranco Cordì