Qualunque cosa succeda nella tragica e farsesca vicenda Gheddafi, deve essere chiaro che l’Italia è tuttora vincolata dal trattato detto “di amicizia, partenariato e cooperazione con la Grande Giamahiria araba libica popolare socialista” votata a grande maggioranza di destra e di sinistra dal Parlamento italiano.
Il voto a sostegno e approvazione di quel trattato non è stato né semplice né rapido, poiché, a cominciare dai sei deputati radicali che sono parte del gruppo Pd e a cui mi sono subito unito, insieme con Andrea Sarubbi, l’opposizione è stata lunga e appassionata, (6.200 emendamenti), si è allargata ai gruppi Italia dei valori e Udc, ha coinvolto (se non altro con la dichiarazione di astensione) l’on. La Malfa che a quel tempo era ancora parte del Pdl.
Una battaglia lunga e vana perché, sotto la stesura, a momenti illegale e a momenti ridicola dei vari articoli del trattato, si nascondevano due fatti diversi da quelli che stavamo discutendo: le direttive di gruppi d’affari che avevano interessi importanti da proteggere o da iniziare; e la ferma intenzione della Lega Nord di bloccare per via militare l’immigrazione verso l’Italia.
Il trattato mente fin dall’articolo 1. Eccolo: «Le parti, nel sottolineare la comune visione della centralità delle Nazioni Unite, si impegnano ad adempiere in buona fede agli obblighi da esse sottoscritti, sia quelli derivanti dai principi e dalle norme del Diritto Internazionale universalmente riconosciuti, sia quelli inerenti al rispetto dell’Ordinamento internazionale». È evidente che questo preambolo non ha niente a che fare con i respingimenti in mare, con il pattugliamento eseguito con mezzi d’alto mare forniti dall’Italia, con equipaggio in parte italiano, ma sotto comando libico, con la pratica di sparare sulle barche intercettate ad altezza d’uomo, come hanno raccontato pescatori italiani scampati per miracolo a quel tipo di intercettazione.
È chiaro che il preambolo in tradizionale linguaggio diplomatico non descrive il destino dei cittadini eritrei catturati dai libici (sempre su navi italiane e con la presenza di militari italiani, obbligati a fare da complici), rinchiusi in carceri segrete, abbandonati per mesi senza alcuna possibilità di contatti con avvocati, alcuni uccisi, quasi tutti, incluse le donne, tormentati con sistematiche torture. Infine, dopo la rivelazione e le proteste internazionali, gli eritrei sono stati abbandonati senza documenti nel deserto. Intanto, in omaggio all’articolo uno del Trattato tra la Repubblica italiana e la grande Giamahiria libica, il governo libico (ovvero Gheddafi) ha provveduto a chiudere l’unico e ultimo ufficio delle Nazioni Unite funzionante a Tripoli, in modo che in tutta la Libia non ci fosse più un punto di contatto per chiedere il diritto d’asilo che molti avrebbero avuto il diritto di ottenere in Italia.
Ma il senso vero del trattato è detto chiaro dall’articolo 4: «Le parti si astengono da qualunque forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra parte, attenendosi allo spirito di buon vicinato». Segue (comma 2 dello stesso articolo) un obbligo che contraddice la nostra sovranità, la nostra Costituzione, i trattati e impegni internazionali firmati dall’Italia: «L’Italia non userà, né permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia e la Libia non userà né permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro l’Italia».
In altre parole, se il trattato è ancora valido e ancora in vigore, l’Italia non può intervenire nelle stragi libiche, né permettere che gli alleati usino basi o territorio italiano per fermare la mano a Gheddafì. Dunque la domanda: è ancora valido il nefasto e illegale trattato Italia-Libia? Lo è. Per spiegare questa condizione assurda, occorre tornare al modo in cui il trattato è stato discusso e votato dal Parlamento. Il governo Berlusconi-Bossi aveva calcolato bene i frutti, o meglio il bottino di benefici che si aspettava da questo trattato, non benefici per l’Italia, ma per alcune persone o gruppi d’affari o partiti.
Ecco il comma 2 dell’articolo 9: «La Gran Giamahiria si impegna a garantire a società italiane la realizzazione in Libia di importanti opere infrastrutturali, progetti industriali e investimenti». Ma ecco un salto di argomento e di interessi così come è espresso dall’articolo 19: «Le due parti intensificano la collaborazione in atto nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, all’immigrazione clandestina. Le due parti promuovono la realizzazione di un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche da affidare a società italiane dotate di necessarie competenze tecnologiche. Le due parti collaborano alla definizione di iniziative per prevenire il fenomeno della immigrazione clandestina nei Paesi d’origine dei flussi migratori».
Nascono qui problemi umanitari e giuridici che tutte le organizzazioni internazionali hanno denunciato come violazione di diritti fondamentali. Ma il progetto ha bisogno di un solido punto di appoggio che costruisce con l’articolo 20: «Le due parti si impegnano a sviluppare la collaborazione nel settore della difesa tra le rispettive Forze Armate, anche mediante specifici accordi che disciplinino lo scambio di missioni, e quello di informazioni militari nonché l’espletamento di manovre congiunte. Si impegnano altresì ad agevolare la realizzazione di un forte e ampio partenariato industriale nel settore della difesa e delle industrie militari», il che significa offrire alla Libia armi e segreti che l’Italia condivide con i suoi alleati della Nato. Se aggiungiamo a tutto ciò l’obiezione costantemente sollevata in aula dai deputati radicali e dai deputati ribelli del Pd, della mancanza totale di ogni riferimento al risarcimento e ai diritti degli Italiani arbitrariamente espulsi dalla Libia e privati di ogni avere molti anni dopo la fine della guerra e molti decenni dopo la triste avventura coloniale italiana, non resta che domandarsi come abbia potuto il Partito democratico votare a favore di un simile trattato.
Ma così è stato senza che vi sia mai stata l’occasione o il tentativo di offrire una spiegazione in un qualsiasi evento di vita interna del Pd. Nel momento in cui scrivo queste righe, che sono in parte memoria e in parte dolente constatazione di ciò che sta accadendo in questi giorni, mentre il mondo democratico è contro Gheddafi, e Gheddafi è impegnato a bombardare il suo popolo, non c’è alcuna notizia di richiesta, da parte del Pd, di sospensione o abolizione del Trattato. Eppure al momento del voto c’era già, ben chiara e ripetuta, la prima ragione per cui non si poteva ratificare il trattato, specialmente nella versione di collaborazione militare stretta, e di caccia congiunta e armata agli immigrati, poiché la Libia non ha mai firmato trattati internazionali di garanzia dei diritti umani. E adesso, mentre la Libia distrugge la Libia, diventa evidente l’errore commesso, la difficoltà di spiegarlo e, infantilmente, si spera in un puro e semplice abbandono del reperto ingombrante nelle mani di chi non vuol disturbare.
Peccato, perché la Storia, come accade di rado, ha offerto l’occasione di cancellare un grave errore, e di farlo con lealtà e chiarezza. Invece circolano le stesse ragioni invocate da Frattini: il trattato se ne va da solo, perché manca la controparte (non è vero, non si sospende un contratto d’affitto se il padrone di casa viene a mancare) oppure: un trattatosi stipula con uno Stato, non con un governo (non è vero altrimenti sarebbe ancora in atto il Patto Roma-Berlino; ma anche: in tutti gli articoli del Trattato, la controparte è “la grande Giamahiria libica popolare socialista” ovvero il regime di Gheddafi). Ma circola anche una idea peggiore. Vi dicono: è un’emergenza, e le emergenze si affrontano insieme. Insieme vuol dire con la persona che, all’inizio della carneficina, mentre il mondo provava orrore, ha detto: “Non posso disturbare Gheddafi”? Sono sicuro che si tratta di un equivoco e che ho capito male.
Giustamente, infatti, il deputato Pdl Antonione, il giorno del voto per la Libia e per Gheddafi come socio, come partner, come amico numero uno dell’Italia, aveva detto: “Questo è un voto che va paragonato a un voto di fiducia, perché il provvedimento ha una valenza politica straordinaria” («applausi di deputati del Partito democratico», leggo sul verbale della Camera che sto consultando). Non posso immaginare che, proprio in giorni come questi, lasceremo di nuovo nelle mani del governo Berlusconi quel voto. Se lo faremo, dove metteremo quei dieci milioni di firme che abbiamo dichiarato di avere raccolto finora per le sue dimissioni?
Furio Colombo
(da il Fatto Quotidiano, 8 marzo 20111)