Sacha Naspini
L’ingrato
Effequ, 2006, pagg. 243, € 9,00
Il romanzo di Sacha Naspini, fotografo e grafico oltre che valido scrittore, vive nelle pagine l’eco segreto di voci e protagonisti in una sequenzialità cinematografica, impostazione di scene multiple nelle quali l’autore mette a fuoco, secondo particolari riprese di avvicinamento ed allontanamento, il vocìo, la perfidia, l’egoismo e l’amore in una cifra stilistica polimorfa nel suo ironico e continuo variare. L’ironia è termine derivato dal greco “finzione” non nel senso comune del termine, ma viene ad indicare un’azione di depistaggio che “smaschera” e che, in questo lavoro di Naspini, coglie in modo sapiente gli aspetti multipli di una storia di paese.
«Luigino Sarcoli Calamaio aveva trascorso quegli ultimi vent’anni in uno dei tanti paesini che fanno da satellite sulle colline di bassa Maremma», era al suo ultimo anno d’insegnamento e aveva la passione di “impastare” sulla tela i quadri di Toulouse Lautrec. Nell’angusto spazio del sottoscala viveva emozioni, desiderio di affetto, di baci carnali e appassionati dei festosi cabaret di Parigi. Dipingeva con foga quelle donne, come a rubare loro un bacio e un po’ di conforto. La sua giornata di maestro s’alternava alla sua notte trasognata dai colori che inzuppavano pennelli ed eccitavano la sua fantasia e un’alterità fra agito e vissuto. Fanno da coro nella vicenda esistenziale del maestro, le voci pettegole del paese, presentate da Naspini con una grafia diversa che intervalla la centralità della storia e ne snoda un’altra mista di misteri, incomprensioni ed egoismi. È vero tutto quello che ognuno si costruisce e la relazione con il riso, con la relatività nella molteplicità del reale è strettissima e rimanda all’inquietitudine di Pirandello, di Bergson e sottende indubbiamente anche la pittura di Lautrec.
La vita, quella del maestro Calamaio, respirava spiando alla finestra di un mondo che gli scorreva davanti e del quale doveva ammettere di avere un po’ d’invidia, per i giovani soprattutto, per quelli che avevano davanti ancora anni, prospettive, sogni come forse anche la sua ex-alunna ormai grande. Aveva riconosciuto Claretta Rambaldi dallo svolazzare della gonna e l’aveva avvicinata per salutarla dopo tanti anni al bar.
«Oh, non mi riconosce?»
«Lo so chi sei».
Si era avviato a scuola frastornato dimenticando di passare sotto i portici. «Ma il Calamaio altro che fiori che fa! E tutte quelle gonnelle all’aria, tutte quelle donne messe per storto…Mah… sarà anche arte. A me pare roba da concio».
Ecco, da qui s’intreccia la storia che da subito vede il maestro presenza-straniera veicolata da un regia attenta dello scrittore nelle angustie di un paesino che dopo tanto vociare lo definirà “ingrato”. «Be', io non sono certo una di facili giudizi, nossignore, ma alla fine bisogna che lo dica: questo signori miei non è altro che un ingrato». Gli uomini in genere hanno bisogno di non avere dubbi, di etichettare, sancire, giudicare, sentenziare. Insopportabile sarebbe una rimessa in gioco di se stessi che al contrario avverrà in modo “inconsueto” proprio in quell’omino serio e meticoloso a scuola e con qualche vizietto… forse.
«La Chiaretta Rambaldi lo fissava di rimando dall’altra parte della camera, chiusa in una tela, imbronciata e intensa come la Carmen del Lautrec».
Patrizia Garofalo