Le parole più usate: democrazia, patriarcato, potere, speranza, dominazione, scelta, dolore, quote, libertà.
Colpisce, nella possibilità altissima di trovarsi in una babele, il fatto che invece della babele come luogo della confusione, dell'incomunicabilità e della distanza, ci si trova in una babele dove certamente le lingue, le geografie, le provenienze culturali sono diverse, compresi i linguaggi del corpo, ma al di là di queste distanze il clima è di straordinaria condivisione. Anche quando scattano le reazioni, e i conflitti.
Ma facciamo un passo indietro.
Siamo al Cairo, una città tremenda se non siete abituate ad un traffico continuo e ad un rumore assurdo di clacson che ti trapana le orecchie, e che smette solo nelle sale chiuse delle costruzioni, siano esse hotel o bar o case o musei, dove comunque il baccano non ti molla mai nemmeno lì, perché il condizionamento è a palla, gli uomini parlano a voce più alta che in Italia, fumano tutti in modo incredibile e fanno capannelli in ogni dove, in mezzo alla strada come negli spazi chiusi. Sulla tavola svolazzano i fogli degli appunti, e quindi siamo costrette spesso a chiedere che venga spenta l'aria forzata. Siamo al terzo piano del Supreme Council of Culture, a metà tra un museo, un ministero e un luogo dove si svolgono convegni.
Qui si sta svolgendo uno strano atto di creazione, qualcuna tra le presenti direbbe: una tre giorni dall'ambiziosissimo titolo A global conference-women and 21 century – feminist alternatives.
Le organizzatrici sono quattro reti di donne arabe e tre europee: Antico, Ife, Heya, Owsa, Owfi, Act e Wilpf.
Quindi si parla di alternative, non di prospettive, perché le oltre 50 donne che vengono da tutto il mondo con viaggi alcuni davvero rocamboleschi sono convinte che sia venuta l'ora di smettere di fare nuovi progetti, che semplicemente questi ci siano già, e sia il momento di metterli in atto.
L'intreccio tra l'arabo e l'inglese, le due lingue del convegno, non rendono le cose facili, ma lo sforzo è quello di capire, capirsi, e, sorpresa, anche di discutere i nuovi significati da dare alle parole che vengono usate.
La figlia di Nawal Al Sadaawi, rossa di capelli e svelta di lingua si arrabbia: non è importante lottare per una maggiore rappresentanza in politica, -dice- ma bensì perché la casa sia un luogo più equo, sicuro e pacifico per le donne. Il potere vero, per lei, è quello dentro le mura domestiche. E basta anche nell'uso dell'inganno patriarcale messo in atto quando le donne stesse si dividono in giovani e vecchie o parlano di fase primaverile e autunnale della vita. Lo dice alzando la voce, quasi con rabbia, davanti alla madre 83enne, che la guarda divertita. Sua madre, un monumento vivendo del femminismo mondiale, che poco prima ha ricevuto due standing ovation dalla sala, e che ha presentato sia la figlia che l'uomo della sua vita, (che definisce un amico, oltre che compagno di vita), che è anche uno dei motivi per i quali i fondamentalisti egiziani le hanno giurato la morte: non è sposata.
Nawaal (foto), in abito nero sul quale porta una sgargiante giacca rossa, capelli bianchissimi che sfuggono da tutte le parti pur arrangiati in uno chignon, sorridente e generosa con chiunque le voglia scattare una foto, abbracciare, o solo sfiorare con la mano, tiene un discorso in arabo, salutando quello che definisce «il primo evento che si fa nel mio paese al quale mi invitano. In Egitto nessuno pronuncia il mio nome, è come se non esistessi,e quando mi hanno nominata è stato per cercare di distruggermi» scandisce. «Io piango spesso, perché nella mia vita ho sofferto molto, ma oggi ho pianto di gioia pensando che sarei stata con voi».
Vibrante, incredibilmente energica come solo le donne oltre gli 80 anni sanno essere (per fortuna noi in Italia abbiamo esempi come Lidia Menapace e Giancarla Codrignani solo per citarne due molto care e vicine) Nawal declina le sue priorità politiche, e definisce il femminismo il vero umanismo, e il pensiero politico che unifica tutte le grandi utopie: quella socialista, quella pacifista, quella nonviolenta, quella anticapitalista. Il vero obiettivo comune da raggiungere è quello della solidarietà tra le donne, una solidarietà politica nella quale si esaltino le cose che ci uniscono e si continui a lavorare su ciò che ci divide.
È chiara sulla questione del velo e della religione: ogni religione è un luogo di schiavitù per le donne, nella storia antica come nell'oggi. E poi un'altra, importane puntualizzazione, sollecitata anche dall'intervento critico di Houzan Mahmoud, attivista e scrittrice curdo-iraniana nei confronti della relazione della statunitense Miriam Cooke.
Nella sua relazione la nordamericana definiva che 'femminista islamica' una attivista vissuta negli anni '30: sia Houzan che Nawall sostengono con forza che convalidare la divisione tra femministe declinate come occidentali, musulmane, cristiane o altro è offrire strumenti di legittimazione al movimento delle donne come il motore principale del cambiamento universale e globale per tutta l'umanità.
«Quando ero molto piccola», racconta Nawaal, «e mi fu insegnato che le donne per volere di Dio si dovevano considerare diverse e ineguali rispetto agli uomini, scrissi una lettera a Dio, nella quale gli chiesi perché a causa del mio corpo dovessi avere meno diritti dei maschi. Non rispose, quindi diventai femminista».
Il femminismo deve parlare con la voce delle donne che lottano per il cambiamento, per l'umanizzazione dell'intero pianeta, e per diritti umani femminili come universali e imprescindibili.
“Universal rights are basic for democracy,anche women's rights are the base of them”: è un confortante concetto,questo, sul quale il consenso è unanime, e in tempi di relativismo culturale e politico,anche e soprattutto a sinistra, sentirlo scandire da attiviste di tutto il mondo non è poco.
A questo proposito estremamente interessante è la provocatoria e interattiva relazione di Drude Dalerup: questa svedese scattante e simpatica fa saltare tutte sulla sedia con il suo power point sulla rappresentanza politica e l'annoso problema delle quote, controverse, amate e odiate, ma delle quali tocca comunque parlare. Nel 1997, due anni dopo l'assise di Pechino, il paese nel quale la rappresentanza politica era più alta nel mondo era la Svezia, con il 48% di donne nel parlamento. Oggi, nel 2010, il paese con il più alto numero di donne in politica è il Ruanda, con il 56%,mentre la Svezia, buona seconda, vanta solo un 45%. La domanda di fondo è se le quote, da sole, garantiscano una democrazia di genere: la risposta è che nel mondo globale non bastano solo i numeri, che pure contano, perché se le donne che rappresentano il genere femminile sono come Condoliza Rice o Margareth Thatcer il cambiamento con buona evidenza non c'è.
«Non voto una donna perché è una donna», dice Nawaal: «voto una donna o un uomo intelligente».
E Drude Dalerup sfata anche quello che chiama 'il mito originario': che le donne non votino le donne. Non è questo il problema principale, né quello che i club maschili e patriarcali siano forti e indistruttibili, sostiene: il vero punto è che gli uomini non votano le donne, e che quando c'è da puntare su un essere umano per rappresentare gli interessi collettivi gli uomini non pensano ad una donna come candidata, e quindi nemmeno le donne si autorizzano a farlo.
E se è vero che “free choice is really freedom”, la possibilità di scegliere liberamente è libertà, il problema da cui partire è che “the so called free market is non really free”, il cosiddetto libero mercato non è davvero libero, e che in questo mercato regolato dalle logiche del capitale e del neoliberismo non può esserci una scelta davvero libera, non solo per le donne, ma per ogni essere umano.
Dopo un esordio così ricco, del quale ho narrato solo una piccola parte, a domani per l'aggiornamento.
Monica Lanfranco
Redazione Marea