Aung San Suu Kyi è stata liberata, scrive Aung Zaw, su The Irrawaddy. Ma ha di fronte un paese ancora saldamente in mano alla giunta, e indebolito dalle sanzioni economiche.
Il 13 novembre la leader democratica birmana e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi è stata finalmente liberata. Questa notizia farà nascere molte speranze e aspettative. Oltre a essere la segretaria del suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, Aung San Suu Kyi è anche considerata la leader politica della Birmania. Mentre era agli arresti domiciliari, alcune voci critiche, sia all’interno del paese sia all’estero, hanno messo in dubbio la sua popolarità, ipotizzando che non rappresentasse più la maggioranza dei birmani. Ma si sbagliavano. Come ha detto Andrew Heyn, l’ambasciatore britannico a Rangoon, «tutto fa pensare che il regime abbia ancora paura di lei». I cittadini birmani oppressi dai militari non l’hanno dimenticata. Quando a Rangoon si è sparsa la voce della sua liberazione, molte persone, anche i più giovani che non l’avevano mai vista da vicino, si sono radunati davanti alla sede della Lega Nazionale per la Democrazia e hanno marciato fino all’abitazione di Aung San Suu kyi, dove hanno aspettato il suo rilascio senza preoccuparsi dei soldati in assetto antisommossa.
Ma ora bisogna vedere in che modo la leader dell’opposizione affronterà le nuove sfide e il mutato panorama politico del paese, dove troverà problemi molto diversi da quelli affronti nel luglio del 1995 e nel maggio del 2002, le altre due volte in cui la giunta militare al potere l’aveva liberata dagli arresti domiciliari. Il 7 novembre 2010 si sono svolge le elezioni legislative birmane, ma il regime ha manipolato il voto e presto annuncerà la sua “vittoria” dichiarando di aver ottenuto un improbabile 80 per cento dei voti. I militari formeranno un nuovo governo e convocheranno il Parlamento, dove però sederà Aung San Suu Kyi. I generali, quindi, potrebbero pensare di averla neutralizzata per sempre, ma questo calcolo rischia di rivelarsi sbagliato. I militari che governano la Birmania dal 1988 hanno deciso di correre un rischio liberando un personaggio che gode di una popolarità così ampia. Tuttavia, potrebbero anche aver pensato che ne valeva la pena, visto che controllano saldamente il paese. La leader dei democratici, comunque, continuerà a essere una spina nel fianco del regime.
Anche se è una dittatura militare, il governo birmano gode di molti appoggi. La Cina ha sostenuto le elezioni, mentre l’Associazione delle nazioni dell’Asia sudorientale (ASEAN) ha definito il voto «un significativo passo in avanti». Il capo di stato vietnamita Nguyen Minh Triet, che è presidente di turno dell’ASEAN, ha dichiarato: «L’ASEAN invita la Birmania a continuare nel processo di riconciliazione e democratizzazione nazionale per la stabilità e lo sviluppo del paese».
Ma grazie alla sua lotta nonviolenta, anche Aung San Suu Kyi ha molti amici e ammiratori in tutto il mondo, e in Birmania continua a essere un simbolo delle battaglie contro la giunta. La leader della Lega Nazionale per la Democrazia ha sempre chiesto ai suoi avversari di avviare un dialogo politico serio, ma gli ultimi incontri con i dirigenti del regime non hanno prodotto grandi risultati. Anzi, lei non ha fatto altro che entrare e uscire di prigione.
Secondo molti osservatori, Aung San Suu Kyi continuerà ad invitare al dialogo e chiederà al regime di liberare gli oltre duemila prigionieri politici che sono ancora dietro le sbarre. Ma un fatto ancora più importante è che avrà un ruolo cardine nella riconciliazione e nella riunificazione dei gruppi etnici birmani. Prima del suo rilascio, infatti, si stava occupando dell’organizzazione di una seconda conferenza di Panglong. La prima fu presieduta da suo padre, Aung Sang, e si svolse nel 1947, un anno prima che il paese ottenesse l’indipendenza dalla Gran Bretagna. In quell’occasione i rappresentanti di vari gruppi etnici costituirono un fronte unito per l’indipendenza.
Dal momento che Aung San Suu Kyi è in grado di conquistare la fiducia delle diverse etnie della Birmania, una seconda conferenza di Panglong sarebbe altrettanto importante. La questione è se il regime ne permetterà lo svolgimento. Aung San Suu Kyi vorrebbe anche far ritirare le sanzioni economiche imposte al suo paese ed è favorevole all’invio di aiuti umanitari in Birmania e nelle zone confinanti (dove vivono molti profughi birmani). Ma ora bisogna vedere in che modo la giunta militare reagirà alla sua offerta di dialogo.
I sostenitori e i militanti della Lega Nazionale sono preoccupati per la sicurezza della leader birmana. Il popolo sa bene che, nonostante la scarcerazione, il regime le rimarrà ostile. La liberazione non è stato un gesto di apertura dei militari, che in passato hanno costruito diverse accuse finte per mandarla in prigione. Quello che il regime vuole evitare è che Aung San Suu Kyi diventi la Benazir Bhutto della Birmania.
Aung Zaw
(da Notizie Radicali, 24 novembre 2010)
Aung Zaw è un giornalista birmano; ha fondato The Irrawady, un mensile pubblicato in Thailandia da un gruppo di dissidenti birmani fuggiti all’estero.