La vita, improvvisamente, fa un giro di 360 gradi. Fino a due mesi fa lottavo in un limbo. Più di una volta mi sono chiesto se sarei riuscito ad uscirne vivo da questo cimitero di uomini vivi. Stavo scontando una condanna di 20 anni di prigionia e già erano passati 7 anni e 4 mesi divisi in tre delle prigioni più severe della geografia cubana. Una mattina indimenticabile, ascoltai dagli altoparlanti dell’ufficio del direttore di Canaleta, la voce del cardinale Jaime Ortega. Le parole che pronunciò furono simili a quelle dette dall’arcivescovo dell’Avana ad altri prigionieri politici che oggi vivono in esilio, a migliaia di chilometri dalla patria che li ha visti nascere, un provvedimento rifiutato da altri prigionieri cubani che ancora rimangono in prigione.
Nessuno ha la più pallida idea della vita da straniero fino a quando non tocca viverla sulla propria pelle. Non è facile, ma il mio naturale ottimismo mi faceva prevedere che tutto sarebbe filato liscio. Il pellegrinaggio in questi due mesi verso centri di raccolta della Croce Rossa è stato costellato da successi e sconfitte. Abbiamo un nuovo cammino davanti a noi adesso che la mia famiglia ha un permesso ufficiale di residenza in Spagna, permesso di lavoro e il calore umano dei Malaghegni. Fra un paio di minuti uscirò a cercare un appartamento, iscrivere Jimmy a scuola e cercare un lavoretto. Quest’ultima cosa sarà la più difficile, visto che non è un segreto il fatto che in questo Paese ci sono più di 4 milioni di disoccupati, secondo notizie della stampa ufficiale. Ma anche qui il mio ottimismo si moltiplica: devo andare avanti, con la tristezza nel cuore per la mia CUBA assente in tempo e spazio, ma sempre viva nella memoria di un esiliato.
Pablo Pacheco
(da Voces tras las rejas, 18 settembre 2010)
Traduzione di Barbara La Torre
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