Ieri, 26 luglio, ho ascoltato (e visto) il discorso con cui Daniel Barenboim ha ufficialmente aperto il Festival di Salisburgo, a novant’anni dalla sua fondazione. La televisione austriaca lo ha trasmesso in diretta dal Salone del Festival (Grosses Schausspielhaus), inaugurato esattamente cinquant’anni fa con una storica messinscena del Cavaliere della rosa, l’opera di maggior successo del proficuo sodalizio fra il musicista bavarese Richard Strauss e il poeta viennese Hugo von Hofmannsthal. Il discorso di Baremboim, che ha sottolineato con enfasi come la musica sia (o dovrebbe essere) tutt’altro che materia per pochi eletti, da relegare nell’atmosfera asfittica di una torre d’avorio, si è trasformato pian piano in un accorato appello alla pace. Dopo aver illustrato alcuni momenti della propria infanzia e della propria adolescenza e aver ricordato le sue visite a Salisburgo nel dopoguerra, il direttore d’orchestra e pianista d’origine russo-ebraica, che è oggi uno dei più noti al mondo, ha affrontato direttamente il tema che più gli sta a cuore, quello del conflitto fra Arabi e Israeliani, e ha invitato tutti a non attendere che la pace arrivi da sé, come una sorta di deus ex machina, ma ad andarle incontro, promuovendo lo scambio e il dialogo con chi è di parere opposto. La musica, così Baremboim, è un mezzo che favorisce questo avvicinamento fra i popoli e a questo deve contribuire.1
Con questo invito alla reciproca comprensione, il Festival, che offrirà fino al 31 agosto ben 190 spettacoli di varia natura, è stato ufficialmente aperto. Ma a dare avvio alle danze, già sabato scorso, c’è stata, come da tradizione, la recita sul sagrato del Duomo di Salisburgo del mistero medievale di Jedermann (Il dramma di Ognuno), il dramma di Hugo von Hofmannsthal che è quasi il simbolo della manifestazione. Dal 1920, infatti, questo è lo spettacolo che contrassegna questa kermesse di fama internazionale. Rivisitazione di una morality play inglese d’epoca medievale d’autore anonimo, pubblicata a Londra nel 1490 e già ripresa in area tedesca dal Maestro Cantore Hans Sachs, questo testo di carattere liturgico di Hofmannsthal fu infatti scelto da Max Reinhardt, il fondatore del moderno teatro di regia, come pièce inaugurale della prima edizione del Festival, da lui fortemente voluto, dopo il crollo dell’Impero asburgico, come momento di “riconciliazione” e di riscoperta di un’identità culturale mitteleuropea dopo gli orrori e la violenza della guerra. Reinhardt aveva già allestito con successo il dramma Jedermann nel 1911 a Berlino, ma la messinscena dell’agosto del 1920 a Salisburgo è rimasta nella storia, anche perché nella parte del protagonista recitava l’istrionico Alexander Moissi, che gli storici dello spettacolo ricordano come un mito.
L’uomo qualunque che dà il titolo al testo, è un ricco patrizio votato a un edonismo sfrenato, che la Morte, che giunge inaspettata a chiamarlo mentre gozzoviglia con la sua amante e un gruppo di presunti amici, coglie del tutto impreparato. Di fronte all’ineluttabilità di quell’incontro, Jedermann è costretto a prendere atto della propria precarietà e della nullità delle cose terrene. La Morte lo accusa di aver sprecato la propria vita nel piacere, gli rinfaccia il suo egoismo e il suo credo nell’onnipotenza del denaro, e lo induce progressivamente, dopo che tutti lo hanno abbandonato, al pentimento e alla sottomissione al tribunale di Dio.
Anche nel 1920 non mancarono gli attacchi contro questo testo, uscito dalla penna di uno scrittore profondamente cattolico e conservatore, cui veniva rinfacciato un facile moralismo e una strumentalizzazione del teatro ai fini della propria gloria personale. All’ebreo Reinhardt, invece, il testo piaceva proprio come allegoria di valore universale, indipendentemente dalla sua precisa interpretazione confessionale. Voleva infatti, come ha ricordato anche Barenboim, un teatro che parlasse alle masse, che ridesse fiducia nella cultura al grande pubblico dopo il crollo dell’imperialregia monarchia danubiana.
Da allora moltissimi attori si sono succeduti sul sagrato del Duomo – tempo permettendo, perché in caso di pioggia lo spettacolo viene trasferito al coperto – nella “recita della morte del ricco”. Quest’anno il copione è stato riproposto con due star del Burgtheater di Vienna, Nicholas Ofczarek nella parte del protagonista, interpretato come un arrogante e rampante manager di oggi privo di scrupoli, e Birgit Minichmayr, seducente nel suo vaporoso abito di un rosso sgargiante, nel ruolo della sua amante, in un allestimento già consolidato del regista Christian Stück. Lo spettacolo è stato applauditissimo e accolto molto bene anche dalla critica che ha apprezzato la messinscena per la sua capacità di aver “rispolverato” e rimesso a nuovo un testo che potrebbe altrimenti risultare datato e stucchevole.
Gabriella Rovagnati
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