I
Il corpo accademico continua ad essere smarrito e silenzioso. È come un pugile frastornato: non reagisce ai colpi che vengono inferti all’Università – e dunque innanzi tutto a chi in essa vive e la fa vivere – da una campagna carica di disprezzo e di irrisione e da una serie di atti governativi devastanti (ampiamente condivisi, nella sostanza ispiratrice, anche dall’opposizione). Continua a subirli in silenzio, rannicchiato su se stesso. Non ha mai trovato le forme collettive di una reazione.
Qualcuno ha paragonato l’Università italiana di oggi alle Signorie del Cinquecento, che si rivolsero alle potenze straniere perché non sapevano risolvere i loro problemi. Ma l’immagine più propria è quella di una colonna di prigionieri stracciati e dagli occhi vuoti, che strascicano i piedi sotto il controllo di poche guardie armate.
Nel cap. 18 del Genesi si narra di come Dio si lasciò impietosire da Abramo promettendogli che avrebbe salvato Sodoma se si fossero trovati almeno dieci giusti. Il senso del racconto è chiaro: qualunque “luogo” può essere salvato da una minoranza. Anche l’Università, dove i giusti sono certamente più di dieci. La sanior pars del corpo accademico, però, non ci crede più. Le colpe per le malefatte di molti, nel corso almeno delle ultime generazioni, pesano come un macigno. È inutile nasconderlo. La paralisi politica di tanti studiosi di valore deriva da un senso di fatalità di fronte a un castigo collettivo percepito come inevitabile e, in fondo, giusto.
Ma chi ha finora giustamente operato non deve sentirsi oppresso e condannato irrimediabilmente all’impotenza da questo senso di colpa collettivo. E non deve nemmeno rassegnarsi a quelle componenti vili del mondo universitario che pensano basti piegarsi, come il giunco sotto la piena, perché nulla in sostanza muti. Con questa rassegnazione la miglior parte del corpo accademico – che non teme nessuna valutazione e nessun confronto scientifico – legittima le ragioni del disprezzo di cui esso è investito, e contribuisce con le sue stesse mani a corrompere la figura dell’Università italiana di fronte alla comunità scientifica internazionale. La prima internazionalizzazione che noi stessi avalliamo è quella del nostro disprezzo.
Per altro è assurdo che, nonostante i comportamenti perversi di molti, invece di estirpare il male si voglia uccidere il malato. Altrettanto assurdo è non riconoscere che le responsabilità dei mali dell’università coinvolgono non solo il corpo docente ma vanno imputate anche, e in misura non minore, ai vari dicasteri preposti all’università nell’ultimo ventennio. E non ci risulta che il MIUR riceva sanzioni a causa del proprio precedente operato.
È doveroso e necessario reagire. L’effetto congiunto del ddl cd. Gelmini, della manovra finanziaria – che va ad aggiungersi a quella avviata nel 2008, sotto il profilo dei tagli e dei sottofinanziamenti – e della protesta dei ricercatori aprono uno scenario nel quale il corpo accademico non può più rimanere inerte e affidarsi al senso di responsabilità che, in una logica bottom up, si confida finirà per prevalere nel Governo, che non potrà (si dice) chiudere le università per asfissia e fame. Il che è assolutamente contraddetto dal fatto che la strategia “affamare la bestia” è ben consapevole e meditata.
E c’è un motivo morale per reagire: non possiamo nasconderci dietro i magistrati, i ricercatori o la protesta del personale tecnico-amministrativo, che vede colpiti i propri bassi redditi al di fuori di ogni equità: non possiamo affidare ad altri la pressione sociale necessaria per invertire la rotta. Il corpo accademico deve, per quanto riguarda l’Università, farsi “classe generale” e assumere su di sé la responsabilità per il futuro di tutto il mondo universitario, compresi – s’intende – gli studenti e il personale tecnico amministrativo.
Per invertire la rotta è necessario partire dalla questione fondamentale, e suscitare una discussione che la sottragga alle misere secche in cui è stata costretta dall’arroganza di alcuni e dalla rassegnazione di molti.
II
La minaccia all’autonomia dell’Università, fondata sull’accusa di autoreferenzialità e disfunzionalità sociale ed economica, nasce da una visione organicistica e totalitaria, che non tollera corpi e funzioni autonomi né nello stato né nella società. C’è perfetta coerenza tra l’attacco all’Università e l’attacco alla magistratura. Il secondo è fondato sull’idea che il potere si concentri tutto nell’esecutivo in quanto espressione del voto popolare, mentre il primo è fondato sulla riduzione all’unico principio della funzionalità tecnico-economica. Queste tendenze stanno in singolare contrasto con la rivendicazione delle autonomie territoriali e del principio di sussidiarietà, un contrasto che si risolverà facilmente quando quella rivendicazione mostrerà tutto il suo carattere illusorio.
Il primo difetto di ogni concezione organicistica è, come dimostra l’esperienza storica, la tendenza all’implosione. Così la mancanza di autonomia della magistratura produce disordine nell’esercizio del potere politico, che non può svolgersi correttamente proprio perché privo di controlli. Analogamente con la mancanza di autonomia della ricerca e della cultura viene meno l’alimento e la possibilità di progresso tecnico ed economico. L’autonomia delle diverse sfere è infatti la condizione di possibilità del reciproco sostegno e incremento.
In un suo tardo corso di lezioni Schelling scriveva: «Proprio per il motivo per il quale da taluno vengono rimproverate le Università, di tenere cioè il giovane in uno stato di troppo grande astrazione rispetto al mondo (come se egli non esigesse proprio questo, che gli vengano garantiti in forma serena e non turbata lo sviluppo e la formazione delle sue capacità spirituali), proprio per questo le nostre Università sono organismi ordinati, degni di essere mantenuti e degni di gloria». Non può non colpire il fatto che queste parole (che non sono una richiesta ma la constatazione dello stato di fatto) siano pronunciate nel 1841 a Berlino: la monarchia assoluta prussiana era capace di garantire quell’autonomia delle Università che le nostre democrazie non sono più in grado di garantire. Certo si può dire che un potere politico forte è in grado di offrire queste garanzie di autonomia, ma non si può nemmeno ignorare che la sua forza deriva anche dalla sua capacità di offrirle.
Nella prima pagina della sua Storia della filosofia Abbagnano sottolineava (ed è una cosa che ripeteva spesso a lezione) che, secondo una tradizione risalente ad Erodoto, la matematica «sarebbe nata in Egitto per la necessità di misurare la terra e spartirla tra i suoi proprietari dopo le periodiche inondazioni del Nilo» conservando così «un carattere pratico, completamente diverso dal carattere speculativo e scientifico che queste dottrine rivestirono presso i Greci». Di questa differenza era consapevole Platone quando contrapponeva «la passione di apprendere che si potrebbe attribuire particolarmente al nostro paese» all’«amore del denaro […] che si riscontra fortissimo presso i Fenici e gli Egizi» (Repubblica, 435 e).
Sta di fatto che il primato dell’interesse pratico ed economico non ha prodotto quello sviluppo della scienza che la speculatività greca ha prodotto consegnandolo all’occidente e rendendo possibile uno sviluppo economico e tecnologico che altre tradizioni, più pratiche, non hanno conosciuto. È ben noto come, anche successivamente, lo sviluppo scientifico abbia conosciuto un particolare incremento quando il sapere si è sottratto alla sua funzionalizzazione religiosa, sociale e politica. Comprimere la ricerca pura in nome di una qualsivoglia destinazione del sapere significa bloccarne la crescita. Scoperte e innovazioni sono possibili se si è aperti a qualsiasi esito della ricerca, mentre esse sono fortemente inibite quando la finalità è sempre già predeterminata dall’esigenza di un utilizzo economicamente e tecnicamente produttivo dei suoi esiti.
Jean-François Lyotard, nel suo famosissimo La condizione postmoderna – volume che nacque come un Rapporto sul sapere nelle società più sviluppate, richiesto dal Consiglio universitario del Governo del Quebec (altri stili, altri cervelli...) – scrive: «L’espansione della scienza non si produce attraverso il positivismo dell’efficienza. Al contrario: lavorare alla prova significa ricercare e “inventare” il contro-esempio, vale a dire ciò che è intelligibile; lavorare all’argomentazione significa ricercare il “paradosso” e legittimarlo attraverso nuove regole del gioco del ragionamento. In entrambi i casi l’efficienza non viene ricercata per se stessa: essa viene per eccesso, a volte tardi, quando i finanziatori si interessano finalmente al caso». Ma noi non abbiamo finanziatori-osservatori attenti; abbiamo solo la miopia di chi concepisce l’Università come luogo in cui praticare l’outsourcing di funzioni aziendali, scaricandone il costo sui rottami del sistema pubblico.
L’immediata destinazione applicativa della scienza fornisce un potente impulso alla demolizione dell’autonomia della ricerca attraverso la sua parcellizzazione, che l’allontana dai suoi fondamenti, cioè dai luoghi in cui può trovare i punti di contatto con gli altri saperi e le altre sfere della cultura. Non si tratta certamente di passare da un eccesso all’altro disprezzando il sapere applicato, ma di non interrompere la sua connessione con la libera ricerca di base, una connessione che, sia pure in modo mediato, finisce per avere ricadute feconde sullo stesso sapere applicato. Come ha osservato Michel Henry in La barbarie, oggi l’attacco all’autonomia del sapere e dell’Università non proviene dal totalitarismo politico e neanche prevalentemente dalla sfera economica, quanto piuttosto dalla tecnocrazia, che tende ad espellere la cultura orientando ogni processo formativo all’acquisizione di abilità tecniche senza riguardo agli effetti negativi che così si producono sullo sviluppo di queste stesse abilità. Possiamo facilmente constatare come la cultura venga tendenzialmente ridotta a momento ludico-distensivo, spettacolare e consumistico. La parcellizzazione del sapere danneggia poi quel che resta della ricerca di base. Essa si arricchisce infatti della reciproca relazione fra le diverse scienze e le diverse sfere della cultura: idee estetiche o filosofiche, per fare un esempio, possono ispirare nuovi modelli scientifici e viceversa. Sappiamo benissimo che l’unità del sapere resta un ideale, ma è molto diverso tenerlo come stella polare o abbandonarlo. Il mantenimento di «uno spirito comune scientifico» è e resta, come già Schelling auspicava, una delle missioni fondamentali dell’Universitas.
Non va poi trascurata l’enorme funzione formativa che può avere una convergenza dei saperi per superare le schizofrenie dell’uomo contemporaneo. Ciò che è in gioco è la ricchezza e la profondità dello spirito personale, che da un lato sono un valore in sé e dall’altro sono le condizioni per l’innovazione e la crescita del sapere, anche di quello tecnico. Purtroppo non ci si avvede di come una civiltà tecnocratica – di cui un’università tecnocratica è una componente decisiva – si avvii verso “la barbarie” di cui parla Henry. Occorre allora sostenere l’autonomia e la tendenziale unità del sapere come dimensioni che devono sempre accompagnare qualsiasi formazione universitaria per quanto essa possa e debba essere orientata alla professionalizzazione. E non si deve avere paura di ciò che immediatamente appare disfunzionale o ritardante rispetto alla velocità dei processi tecnologici e in generale della dimensione applicativa riconoscendo che nella crescita del sapere ciò che è immediatamente disfunzionale può diventare ciò che è alla lunga più funzionale.
La delegittimazione di questa Università, cui hanno certo contribuito anche comportamenti scorretti delle sue componenti, è un passaggio decisivo verso la sconfitta dell’Occidente nel processo di globalizzazione, una sconfitta che non è deprecabile tanto per la perdita di egemonia che essa comporta quanto piuttosto per l’estremo impoverimento umano che porta con sé. Un impoverimento conseguente al decadimento di un ideale di universalità del sapere che è, nonostante tutto, da sempre proprio della cultura occidentale.
Questa difesa della tradizione universitaria non è una semplice riproposizione del modello humboldtiano, ma è il tentativo di riconoscere nell’autonomia della ricerca una ricchezza effettiva del paese, un patrimonio il cui significato e valore non può essere commisurato sulla base di un ritorno effettivo a breve scadenza, e che tuttavia può essere commisurato e valutato in modo adeguato.
Investire nell’università non costituisce affatto, da questo punto di vista, un modo di dissipare risorse che, utilizzate altrove, fruttificherebbero in modo più significativo. Investire sul sapere significa riconoscere e riconoscersi una sorta di capacità di programmare sul medio e lungo termine che è testimone della forza delle istituzioni statuali di un paese. E non è improbabile che la stessa debolezza congenita della nostra Università dipenda da un’altra altrettanto congenita debolezza delle nostre istituzioni politiche che vivono in uno stato di assoluta precarietà; che possono subire, come un’invasione, la presenza di una parte politica o dell’altra senza aver la capacità di mantenere un indirizzo autonomo.
A questo proposito bisogna chiedersi: com’è possibile che un Ministero condanni (non solo orienti a un diverso indirizzo, come è ovviamente legittimo, ma rinneghi nella loro sostanza, in riferimento ad istituzioni che godono di un’autonomia costituzionalmente protetta) le proprie precedenti politiche dopo che si sono modificate le maggioranze di governo? Gli organi dell’Amministrazione centrale da cui dipende la vita di istituzioni costituzionalmente garantite non dovrebbero essere relativamente autonomi dal conflitto politico? Non ci si rende conto che immergendoli in quest’ultimo le si disintegra e si produce un disorientamento gravissimo nell’ambito di coloro che devono fare istituzionalmente riferimento alle loro direttive? Se lo stesso Ministero riconosce come radicalmente sbagliati i propri precedenti comportamenti, questo potrebbe valere anche per il futuro, in occasione di un ulteriore cambio di guida politica. Un andamento di questo genere produrrebbe (se non ha già prodotto) un totale scetticismo nei confronti delle istituzioni, una disaffezione nei loro confronti da parte dei cittadini, degli utenti e dei loro dipendenti. E ben difficilmente la disaffezione e lo scetticismo producono l’efficienza che oggi tanto si auspica.
Si tratta invece di cogliere la genesi dei mali dell’università per indirizzare meglio, e cioè in modo oculato e differenziato, più e non meno risorse. Questo significa per esempio interrogarsi non solo sull’andamento dell’Università ma su quello dei nostri istituti di ricerca in generale. Ora l’Italia è forse l’unico paese in Europa che abbia incanalato tutte o quasi tutte le risorse della ricerca nell’Università. Questo significa che il tracollo dell’Università produrrebbe il totale tracollo della ricerca italiana che non può contare su istituzioni come la Max Planck Gesellschaft tedesca o il CNRS francese. Che questo paese non sia stato mai in grado di pensare davvero che la ricerca sia un valore in sé è dimostrato anche dalla quasi totale assenza di strutture di pura ricerca, che potrebbero interagire con l’Università contrastando la tendenza a finalizzare la sua attività di ricerca esclusivamente alla professionalizzazione. È sulla base di questa mentalità, che favorisce la parcellizzazione del sapere, e sulla spinta delle istituzioni locali che si è creata un’eccessiva proliferazione di sedi decentrate (ancor più che di atenei). Non era meglio sviluppare centri di ricerca autonomi, più attrezzati e più efficienti quanto alle loro finalità, rispetto a molte sedi periferiche? In questo modo si sarebbe perseguita quell’“eccellenza” di cui tanto si parla senza produrre i guasti attuali. In questo modo forse avremmo ancora ventenni e trentenni che percorrono con entusiasmo le vie della ricerca, e non quel panorama tristissimo di giovani ricercatori senza prospettive (e disillusi quanto i loro professori) che abbiamo dinanzi. Su questa via si potrebbe procedere senza produrre tracolli e senza aggravare i bilanci, ma anzi arricchendo il panorama delle istituzioni culturali del nostro paese. Non si potrebbe orientare gradualmente il cammino, senza traumi, proprio in questa direzione?
Ora è chiaro che produrre il tracollo dell’Università con i tagli attuali significa far crollare non solo l’istituzione didattica che va sotto questo nome ma anche l’unica (o quasi) struttura pubblica dedicata alla ricerca. Ed è ben evidente che una didattica che non venga sostenuta dalla ricerca produce stanche e disinformate ripetizioni da parte di un personale docente umiliato che si sentirà sempre più indotto a svolgere i propri compiti per puro dovere di firma. C’è modo di procedere diversamente aumentando semmai finanziamenti da sempre largamente insufficienti, con una distribuzione delle risorse fondata soprattutto sul merito scientifico, con un’incentivazione anche economica che faccia riferimento a questi parametri. Occorre dunque spendere per valutare e per valutare bene. Con gli attuali criteri si ottengono valutazioni ancora troppo vaghe.
Si tratta di creare un corpo docente convinto dei propri compiti e orgoglioso dell’istituzione in cui lavora e che sia dunque fermamente determinato e incentivato a rappresentarla secondo uno spirito di servizio e di correttezza. È ben evidente, per finire, che i tagli sugli stipendi produrranno l’esatto contrario: la ricerca di compensazioni economiche e d’immagine al di fuori dell’università e l’inclinazione a fare il minimo indispensabile.
III
Alla luce a) di queste gravissime preoccupazioni che coinvolgono non solo i tagli previsti ma anche le indicazioni quanto mai caotiche relative al nuovo assetto dei Dipartimenti e delle Facoltà, b) delle facilmente prevedibili difficoltà di carriera in cui verranno a trovarsi gli attuali ricercatori, e c) del prevedibile perpetuarsi sine die del precariato per chi si avvia alla carriera accademica, si propone ai Colleghi di riflettere su iniziative di protesta quali: – Sciopero di tutto il personale docente dell’Università; – Sospensione delle sessioni di esami ivi comprese quelle di laurea; – Rinvio dell’inizio delle lezioni.
Claudio Ciancio (Univ. del Piemonte Orientale), Mario Dogliani (Univ. di Torino), Federico Vercellone (Univ. di Torino)
Antonio Aiello (Univ. di Cagliari), Alessandra Algostino (Univ. di Torino), Franco Algostino (Politecnico di Torino), Luigi Alici (Univ. di Macerata), Cesare Alippi (Politecnico di Milano), Umberto Allegretti (Univ. di Firenze), Roberta Aluffi (Univ. di Torino), Stefano Anastasia (Univ. di Perugia), Vittorio Angiolini (Univ. Statale Milano), Dario Antonelli (Politecnico di Torino), Giuseppe Arca (Univ. di Cagliari), Fabiola Ardizzone (Univ. di Palermo), Alessandro Arienza (Univ. di Napoli Federico II), Enrico Artifoni (Univ. di Torino), Ferdinando Arzarello (Univ. di Torino), Vincenzo Atripaldi (Univ. Roma La Sapienza), Claudio Azzara (Univ. di Salerno), Gaetano Azzariti (Univ. Roma La Sapienza), Gabriele Azzaro (Univ. di Bologna), Giancarlo Baffo (Univ. di Siena), Carmela Barbera (Univ. di Napoli Federico II), Enzo Balboni (Univ. 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