Qual è il vero scopo di una campagna di diffamazione? O meglio: esistono limiti e barriere invalicabili per una campagna di diffamazione? Non lo so, ma mentre l’ascensore mi porta in alto mi faccio proprio queste domande. Forse è soltanto curiosità filosofica, oppure il mio io intimo ha deciso di scrutare certi misteri: so bene che dopo essere entrato in questo appartamento, dopo aver fatto questa intervista, sarò inserito in un elenco, il mio volto comparirà in alcune registrazioni come un possibile “reclutato” dalle milizie nemiche. Sorrido, mentre percorro il tragitto che separa l’ascensore dall’appartamento “B”. È il mio saluto alle telecamere che forse sorvegliano questo spazio. Potrei dire a voce alta “Buona notte”, ma non posso sapere se chi ascolta dietro i microfoni installati, saprà che vado da loro. Non mi apre Yoani, ma un adolescente che dopo identificherò come suo figlio Teo. Mentre lui va a cercare la mamma, mi guardo intorno: la differenza tra la sala che ho visto di giorno e adesso è enorme. Senza tutte quelle sedie di plastica, arredato in modo sobrio ma elegante, l’appartamento trasmette pace. E buon gusto. Una luce tenue, gialla, si diffonde all’interno dove si riflettono le luci lontane della città, bellissime, la presenza di molti libri, piante e pesci (in una vasca), e di una cagnolina affettuosa, rendono l’ambiente ancora più umano.
Siamo seduti uno di fronte all’altro, con la tranquillità alla quale ogni intervistatore aspira, trovo che l’ambiente è quello giusto.
– Non posso fare a meno di sorprendermi di essere qui, in uno dei fortini della resistenza, la casa di una delle persone più detestate e attaccate dai mezzi di comunicazione ufficiali del mio paese, – dico.
Lei sorride e annuisce.
– Il processo di demonizzazione contro una persona porta a questo. Capita anche a chi non crede alle menzogne che si dicono contro il demonizzato, ma il dubbio e la sorpresa, anche dopo aver visto la persona come un essere in carne e ossa, restano sempre.
Per quel che mi riguarda non si tratta di sorpresa, ma provo una miscela di piacere e di sottile emozione. Posso dialogare intimamente con Yoani Sánchez, la blogger più conosciuta e polemica di questo paese, una delle più note figure del ciberspazio a livello internazionale. Yoani esercita su di me una seduzione incredibile. Non tanto per i suoi premi internazionali e per il nome nella lista delle 100 persone più influenti secondo la rivista Time. Questa seduzione non deriva neppure dalle decine di migliaia di lettori che ogni giorno accedono a Generación Y in 16 lingue, o perché questa cubana dalla figura umile e insignificante ha ottenuto sette risposte dal Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Devo ammetterlo: ho letto diverse cose che ha scritto, ho frequentato il suo blog con una certa regolarità, ma non mi considero uno dei suoi fedeli. Nel mio caso si tratta dell’interesse che mi risvegliano gli odiati, i vilipesi, i senza voce e le voci alternative. E anche, perché no, la sincera ammirazione che mi producono coloro che difendono le cose in cui credono, nonostante ostacoli e repressioni, e che sono capaci di assumere certe posizioni ben sapendo l’alto prezzo che dovranno pagare per le loro idee.
Yoani e suo marito, il giornalista Reinaldo Escobar, si sono trovati poco tempo fa al centro delle polemiche politiche cubane. Un giorno tre cittadini non identificati si resero protagonisti di un atto in pieno stile siciliano: per venticinque minuti minacciarono, aggredirono fisicamente e insultarono all’interno di un’auto questa donna dalla modesta statura e dal peso corporeo di un’adolescente. Insieme a un amico blogger venne abbandonata in un quartiere lontano. Pochi giorni dopo, quando fu in grado di reagire in modo coerente e non sotto l’impulso dell’ira (secondo le sue stesse parole), suo marito decise di convocare uno di questi personaggi a un “duello con le parole”, per ottenere spiegazioni su questo atto brutale. Alle cinque della sera del giorno annunciato, Reinaldo Escobar si preparò per un incontro che non ebbe mai luogo. Al suo posto venne aggredito da una moltitudine di giovani e di agenti della sicurezza camuffati da civili. Le immagini di quel triste evento hanno fatto il giro del mondo, sono state viste persino sugli schermi di Cuba, anche se sono state presentate come la risposta patriottica che un gruppo di universitari dava ad alcuni sbirri, mercenari e traditori della patria che offendevano la loro nazione.
Penso proprio a queste cose adesso che entrambi (Reinaldo è uscito dalla camera e si è seduto insieme a noi) si apprestano a rispondere alle mie domande. Penso a un’immagine che ricordo in maniera nitida: Yoani che scrive con il suo computer portatile sul tavolo dell’Hotel Nacional di Cuba, e la stampa ufficiale che pubblica la sua foto con la didascalia: “Yoani Sánchez in piena attività mercenaria”. Comincio con le domande e incido le risposte grazie al mio registratore portatile.
Ernesto Morales
giornalista cubano di Bayamo
Traduzione di Gordiano Lupi
3. Segue alla prossima puntata...