Da circa quindici anni, ad ogni tornata elettorale italiana, il tema della “sicurezza” torna sotto i riflettori. Poiché, tranne pochissime e lodevoli eccezioni, i candidati sono uomini che non sanno di cosa parlano o donne cooptate da uomini e quindi con bavaglio incorporato, la “sicurezza” diventa lo sbarazzarsi dei migranti e il fare di pubbliche vie e piazze altrettanti set di reality show (e cioè muniti di telecamere perenni) o campi d'addestramento paramilitare per ronde di esaltati.
Quand'è che una città è sicura, per tutti ma davvero per tutti? Quando le donne la percepiscono per tale.
Adulte, ragazze e bambine sono molestate sessualmente e aggredite ovunque: nelle loro stesse case, nelle strade, nelle piazze e nei parchi, a scuola, nei posti di lavoro e mentre usano mezzi pubblici. Così, nel cestino della merenda come nello zaino, nella borsa della spesa come nella tracolla, noi ci portiamo a spasso la paura. La portiamo con noi anche nei rari casi in cui non abbiamo mai subito una molestia o un assalto vero e proprio: perché tutte conosciamo qualcun'altra a cui è accaduto. Inoltre, non c'è episodio di violenza di genere che non sia riportato scaricando la colpa della violenza stessa sulla vittima, e correlato da innumerevoli assunti sulla “debolezza”, “fragilità” e “vulnerabilità” delle femmine umane. Il nostro timore ha di certo un fondamento nelle nostre esperienze, ma è nutrito dall'esterno, e di proposito. Quindi, che noi si abbia addosso la cicatrice della violenza o no (insicurezza o percezione di insicurezza) la paura ci impedisce di usare e di godere la nostra città pienamente. Non appena è possibile, se non vi siamo costrette da impegni di studio e lavoro, evitiamo quegli spazi che ci fanno sentire a disagio, o dove è accaduto qualcosa ad un'altra donna: il risultato è che strade, piazze, parchi eccetera sono più spesso usati da uomini e ragazzi.
La politica, se pure le capita di accorgersene, non ci fa gran caso nonostante si firmino di continuo impegni e protocolli a favore dell'equità di genere: se volete una prova leggetevi le deliberazioni del Parlamento Europeo, io ogni tanto le salvo e le rileggo sei mesi dopo per farmi l'ennesima amara risata (giacché all'impegno formalmente preso non segue in Italia un'azione concreta che sia una). Quando la politica parla di violenza è troppo spesso ipocrita e cieca: ipocrita perché pronta a denunciare e condannare quella della parte avversa nel mentre glorifica la propria; cieca perché non vede, o sottostima grandemente, la reale estensione della violenza contro le donne. Questo significa che qualsiasi programma disegnato a tavolino dai politici per contrastare la violenza nelle città è destinato al fallimento. Ma cambiare è sempre possibile.
Una città è sicura, ed è piacevole viverci per ogni essere umano e non umano quando:
1. Donne, ragazze e bimbe possono godere degli spazi pubblici senza timore di essere aggredite.
Il che significa, ad esempio, che tali spazi sono usati da cittadini/e diversi/e, che conducono attività diverse a diverse ore del giorno: la mescolanza e la varietà tendono a promuovere un clima pacifico, la ghettizzazione per contro ispira diffidenza e ostilità. Inoltre, più occhi ci sono sulla piazza più è difficile dare inizio alla violenza. Più questi occhi guardano in modo sfavorevole alla violenza, meno questa ha probabilità di accadere. Significa anche che gli spazi sono ben curati, accessibili a persone con disabilità, amichevoli verso gli animali, attrezzati per intrattenere i bambini e far sentire a proprio agio gli anziani.
2. Donne, ragazze e bimbe non sperimentano violenza domestica, non sono discriminate ed i loro diritti economici, sociali, politici e culturali vengono garantiti.
Il che significa che l'amministrazione cittadina si sforza di prevenire, diminuire e quando è possibile eliminare del tutto, le cause della violenza: incoraggia quindi la partecipazione delle donne alla vita democratica e la loro indipendenza economica; riconosce e attesta che la principale causa della violenza di genere è lo sbilanciamento di potere fra uomini e donne; riconosce e attesta che tale violenza è un ostacolo grave alla vita ed allo sviluppo delle città e delle comunità, nonché un danno economico (l'Europa spende milioni di euro ogni anno per la violenza domestica: li spende in cure sanitarie, spese di funzionamento di forze dell'ordine e magistratura, impieghi persi, servizi); riconosce e attesta che vi è connessione diretta fra violenza domestica e violenza negli spazi pubblici, e a seconda delle specificità relative al proprio territorio ed alle risorse in esso presenti disegna ed implementa programmi.
3. Donne, ragazze e bimbe sanno che i governi locali provvederanno attenzione e servizi per prevenire e censurare la violenza diretta contro di loro, e sosterranno il loro accesso alla giustizia.
Il che significa che l'intera comunità è coinvolta nel progetto di fare della propria città una città “sicura” (volontariato, gruppi minoritari etnici linguistici ecc., personale sanitario, personale delle forze di sicurezza, sindacati...). Significa che l'amministrazione locale ha cercato ed ottenuto il consiglio e la partnership di chi di violenza di genere ne sa qualcosa: case per non subire violenza, gruppi antiviolenza, associazioni per i diritti umani, organizzazioni femministe, gruppi lgbt; che nelle scuole vi sono programmi tesi ad insegnare l'equità di genere e i principi della nonviolenza; che nel pianificare trasformazioni urbane le necessità e le idee delle donne sono state considerate; che le condizioni che favoriscono ed aggravano la violenza contro le donne, come la povertà, la disoccupazione, il razzismo e il sessismo vengono contrastate (non meramente elencate: è carino ricevere una pacca simbolica sulla spalla, ma ad una donna che voglia denunciare la violenza subita è più utile avere un'avvocata a disposizione e un fondo per le spese legali, l'accesso ad un impiego se non ce l'ha, la possibilità di affittare una casa a prezzo equo, e così via).
Davvero, non ho detto niente di nuovo. Se anche voi ne siete convinte/i,
rimbocchiamoci le maniche.
Maria G. Di Rienzo
(da Telegrammi della nonviolenza in cammino, 25 marzo 2010)