Un famoso regista europeo – il bosniaco Emir Kusturica – giorni fa, sulle pagine di Repubblica, ha dichiarato: «I miei film sono il contrario di quelli hollywoodiani che, in varie forme, sono pura propaganda. Ossequienti alla politica di Washington, ma prodotti a Hollywood».
Ora, chi è andato a vedere Avatar – che, come tutti sanno, è il prodotto di punta del cinema hollywoodiano di quest’anno – difficilmente potrà dare ragione a Kusturica.
Come capita ai film popolari, in Avatar i buoni e i cattivi sono identificati in modo da non lasciare adito a dubbi. E qui i cattivi sono i marines americani (salvo un gruppetto di eroici ribelli).
Certo, è un film di fantascienza; non racconta la guerra in Iraq, ma la conquista di un pianeta fantasmagorico, abitato da indigeni con la pelle blu. Ma alcune espressioni del dialogo come: “attacco preventivo” o “rispondere al terrore con il terrore”, sono allusioni inequivocabili a eventi reali.
E la condanna del cinismo affaristico che spinge a conquistare quel pianeta, così come della violenza ottusa e spietata dell’esercito, che non rispetta i diritti sacrosanti degli extraterrestri e distrugge un bosco millenario, è netta e molto dura.
Dov’è allora l’ossequienza alla politica di Washington che denuncia Kusturica? Certo, il film esce durante l’“era di Obama”. Ma il regista James Cameron, per progettarlo e realizzarlo, ci ha messo quasi dieci anni; più o meno il periodo della presidenza di Bush. Con questo, voglio escludere che Hollywood produca anche film di propaganda filo-presidenziali? No, certo, ci sono anche quelli. Ma il giudizio di Kusturica è decisamente riduttivo.
Del cinema americano si sente spesso parlare molto male. Si dice per esempio che i film americani sono dei giocattoloni fracassoni che si basano soltanto sugli effetti speciali.
Va detto che quel capolavoro di ingegneria che è Avatar rientra a pieno in questa tipologia. Per quanto mi riguarda, dopo oltre due ore e mezzo di incontri e scontri corpo a corpo con bestie orripilanti, di salti nel vuoto, di imprese titaniche, di esplosioni spettacolari, ho condiviso le impressioni che ha voluto rendere pubbliche in un articolo il regista Roberto Faenza: e cioè ho provato nostalgia per un cinema che racconti vicende umane, più prossime alla vita degli spettatori. Ma il cinema americano produce soltanto film come Avatar?
Per restare soltanto alle uscite più recenti dell’ultima stagione, film problematici o intimistici, come A serious man dei fratelli Coen, o l’ultimo film di Coppola, Segreti di famiglia, non sono forse film americani anche quelli?
Ma vorrei parlarvi di un altro film americano, uscito in Italia lo stesso giorno di Avatar, e che più diverso da Avatar non potrebbe essere.
Si intitola A single man, ed è l’opera prima di Tom Ford, già noto come stilista. (È un film che, presentato al festival di Venezia, ha vinto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile, di Colin Firth).
Non racconta vicende straordinarie, ma la vita quotidiana di un professore universitario.
Il bello di questo racconto, è che è filtrato attraverso lo stato emotivo del protagonista, come una musica che avvolga tutti gli atti della sua vita. Ma una musica – mi si passi questa licenza - che non è soltanto sonora, ma resa attraverso le immagini: con una particolare luminosità delle inquadrature, un montaggio frantumato, e altri accorgimenti.
Tale stato emotivo, che arriva allo spettatore molto forte, tanto da essere perfino contagioso, è il dolore del lutto. Il protagonista ha perduto da poco una persona con cui ha vissuto un lungo rapporto d’amore. E ora tutte le sue energie sono focalizzate su questa ferita interiore, tanto che gli eventi del mondo esterno gli giungono come attutiti. Forse lo confortano un po’ certi incontri abituali: con gli studenti a cui fa lezione; con una vecchia amica che sente al telefono o che va a trovare a cena.
Ma quando il mondo esterno esige troppo da lui (quando l’amica gli fa delle avances, o uno studente cerca di sedurlo) reagisce con freddezza, o con un’ingiusta irritazione. È che ancora non vuole o non può distogliersi dal suo dolore.
Di questa cronaca, ammirevolmente condotta dal film, ho omesso un particolare: il professore è omosessuale, e la persona amata che ha perduto è un ragazzo. Ma è un particolare poi così determinante? Se fosse stata una donna, la sua sofferenza non sarebbe stata la stessa?
Nel film, almeno in un passaggio, c’è la rivendicazione della piena dignità dell’amore tra due uomini, non superflua se si considera che la storia si svolge nell’America degli anni Sessanta.
Ma non c’è un oltranzistico “orgoglio gay”, così come non ci sono pudori superflui.
L’omosessualità è trattata con equilibrio laico.
Gianfranco Cercone
(da Notizie radicali, 2 febbraio 2010)