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Camilla Spadavecchia. Identità: una lezione per riflettere
Ralph Linton (1893 - 1953)
Ralph Linton (1893 - 1953) 
18 Gennaio 2010
     

All’interno di uno scenario nazionale dove l’emozione diviene l’unico strumento di conoscenza, non più intesa come coscienza di ciò che si apprende, ma come fagocitazione di informazioni; i canali informativi e i gruppi politici tendono sempre più a sfruttare le emozioni forti per creare dibattiti in cui concetti, pensieri, modi di dire e immagini stereotipate vengono utilizzate per tentare di capire la complessità socio-politica nella quale viviamo. Si creano così nuovi gruppi sociali o politici cui aderire emotivamente, si originano nuove identità locali o nazionali e si giunge a definirle “pure”, vedono la luce nuove divisioni basate su pretesti culturali o religiosi e si originano quindi nuovi conflitti, dove tutti devono essere emotivamente schierati. Per ogni questione siamo chiamati dalla televisione e dai leader politici a dividerci nettamente, a pensare bianco o nero, ad avere un’opinione, non ragionata, ma, sulla stregua dell’emozione, sentita, tesa a conformare le persone con l’uno o l’altro gruppo. Il bisogno di definire un noi, in contrapposizione all’altro, tipico di ciascun gruppo sociale, diviene qui il mezzo attraverso cui fomentare la paura e il disprezzo dell’altro da se inteso sia come singolo sia come gruppo sociale o politico che sia.

All’interno di questa società dell’incertezza, così come la definisce il sociologo Z. Bauman, il bisogno sociale della rivendicazione del sé - inteso in senso etnico, politico, religioso, nazionale e localistico - diviene sempre più pressante ed è pertanto necessario uno sforzo di ripensamento critico dello stesso concetto di identità, non intesa in maniera semplicistica e stereotipata, ma semmai ragionata.

A tale proposito, senza entrare nel merito della questione identitaria, che prevedrebbe ben altri spazi di scrittura e riflessione, è interessante rileggere le parole con cui l’antropologo Ralph Linton era solito introdurre le sue lezioni universitarie, grazie alle quali faceva ragionare i suoi studenti sulla relatività dell’identità, descrivendo in maniera ironica, ma puntuale il “perfetto” cittadino americano medio:

«Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria dell’India; o di lino, pianta originaria del vicino Oriente; o di lana di pecora, animale originariamente addomesticato nel vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu scoperto in Cina. Tutti questi materiali sono stati filati e tessuti secondo procedimenti inventati nel vicino Oriente.

Si infila i mocassini inventati dagli indiani delle contrade boscose dell’Est e va nel bagno, i cui accessori sono un misto di invenzioni europee e americane, entrambe di data recente. Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si fa la barba, rito masochistico che sembra sia derivato dai sumeri o dagli antichi egiziani. Tornato in camera da letto prende i suoi vestiti da una sedia il cui modello è stato elaborato nell’Europa meridionale e si veste. Indossa indumenti la cui forma derivò in origine dai vestiti di pelle dei nomadi delle steppe dell’Asia, si infila le scarpe fatte di pelle tinta secondo un procedimento inventato nell’antico Egitto, tagliate secondo un modello derivato dalle civiltà classiche del Mediterraneo; si mette intorno al collo una striscia dai colori brillanti che è un vestigio sopravissuto degli scialli che tenevano sopra le spalle i croati del diciassettesimo secolo. (…)

Andando a fare colazione si ferma a comprare un giornale, pagando con delle monete che sono un’antica invenzione della Lidia. Al ristorante viene a contatto con tutta una nuova serie di elementi presi da altre culture: il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina; il suo coltello è di acciaio, lega fatta per la prima volta nell’India del sud, la forchetta ha origini medievali italiane, il cucchiaio è un derivato dell’originale romano. Prende il caffè, pianta abissina, con panna e zucchero. Sia l’idea di allevare mucche che quella di mungerle ha avuto origine nel vicino Oriente, mentre lo zucchero fu estratto in India per la prima volta. Dopo la frutta e il caffè mangerà le cialde, dolci fatti secondo una tecnica scandinava, con il frumento, originario dell’Asia minore. (…)

Quando il nostro amico ha finito di mangiare, si appoggia alla spalliera della sedia e fuma, secondo un’abitudine degli indiani d’America, consumando la pianta addomesticata in Brasile o fumando la pipa, derivata dagli indiani della Virginia, o la sigaretta, derivata dal Messico. Può anche fumare un sigaro, trasmessoci dalle Antille, attraverso la Spagna.

Mentre fuma legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che si agitano all’estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano».

Questo discorso, presente anche nel volume Lo Studio dell’Uomo pubblicato in America nel 1936 e tradotto in Italia soltanto nei primi anni Settanta (Il Mulino, Bologna 1973, pp. 359-60, cit. in Marco Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004) era rivolto ad una società, che per molti versi ricorda quella italiana di oggi, dove l’identità e la cultura venivano viste come di per sé pure, quasi come se ciascun gruppo sociale vivesse all’interno di una campana di vetro tesa a proteggerne le specifiche diversità. In realtà le culture sono di per sé interculturali, il contatto dei singoli e dei gruppi nella dimensione spazio temporale dentro la quale si muove l’umanità ha portato ad un movimento generatore di intrecci socio-culturali che da sempre sono stati e sono parte della nostra cultura.

 

Camilla Spadavecchia


 
 
 
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