Ancora una volta rimango in Emilia Romagna, ma non c’è premeditazione, giuro!! È la casualità di scoprire poeti straordinari come Azzurra D’Agostino, quelli già venuti e poi quelli che verranno, leggendo su e già per l’Italia, cercando l’oro… (fa)
La poetessa nasce a Porretta T. (Bo) ma a diciotto anni si trasferisce a Bologna per laurearsi in filosofia. Qui inizia a collaborare con alcune riviste letterarie, prime fra tutte il trimestrale Daemon di cui è oggi redattrice.
Numerosi i testi pubblicati in riviste, giornali, antologie (tra cui citiamo Voci di poesia Pendragon, 1997).
È del 2004 la prima silloge in dialetto ed italiano, D’in nci’un là (Da nessuna parte) per i tipi de I Quaderni del Battello Ebbro; nel 2005 pubblica il secondo libro per LietoColle, Con ordine e nel 2006 viene scelta per l’antologia In un gorgo di fedeltà curata da Maurizio Casagrande e pubblicata per i tipi de Il Ponte del Sale.
Dal 2003 scrive attivamente per il teatro collaborando con singoli artisti e compagnie. Suoi lavori sono stati per Gabriella Rusticani del Teatro Valdoca e Stefano Tè del Teatro dei Venti (sito in manutenzione), ha scritto per Tommaso Ronda, collabora con il Teatro dell’Argine-Itc Teatro.
Per mantenersi ha fatto i più diversi lavori, come la cassiera in un’agenzia ippica, la cameriere, la correttrice di bozze, la grafica, l’educatrice. Da qualche anno, oltre a tenere letture e fare incontri pubblici nelle scuole, è istruttrice in piscina nonché bagnina, con grande soddisfazione.
Come si fa scrivere perfettamente in due lingue? Sembrerebbe – sbagliando – prerogativa di autori che affondano l’età negli anni, e non capacità di un’autrice nata nel 1977. Il risultato è un’alternanza in cui non si perde niente, anzi, per contrasto le due lingue movimentano un dettato preciso, attento, morale e vivissimo. Non va perso niente ripeto, sia in italiano sia nel dialetto che prende radice dalla corposità materica dell’entroterra Romagnolo: l’intuizione poetica e l’adesione alla lingua, qualunque essa sia, sono il felice approdo nei quali la riflessiva capacità di essere nel testo di Azzurra D’Agostino si presenta già ferma, portatrice di uno stile meditato e sicuro, dove il dominio tecnico non prevale sulla parola tanto quanto la spontaneità del dialetto (che riterremmo confinato ad una pura oralità) si coniuga e trova agio nello scritto.
Quanto accade non deve stupire, soprattutto non è frutto di calcolo: è una dote innata che la D’Agostino ci offre distillando testi mediamente brevi, affinati, tendenti alla narrazione per immagini, dove il tessuto della narrazione movimenta le sequenze in cui prendono avvio microcosmi che riportano al ricordo per slanciare lunghissimamente al qui e ora, quasi ad invitare ad un cammino, a non interrompere la percezione delle cose e persone (Mostra del tempo è una sezione dell’edito Con ordine), a calarsi nella misura che permette l’innesto tra cronaca e memoria.
La prima volta che ho letto i testi della D’Agostino, ho avuto l’impressione di “conoscerli”, come se la lingua che mi venisse parlata fosse già stata scritta. La sicurezza custodita nei versi, il dettato pacato, la capacità di non voler sopraffare la lingua con invenzioni è l’atto assoluto con cui la sua poesia si compie: ci parla aprendoci varchi, feritoie (Feritoie da un altro mondo è poi una seconda sezione di Con ordine) in cui non siamo costretti a sbirciare, ma in cui possiamo guardare a sguardo pieno, in piedi e benvoluti. Di rimando, sembra quasi di essere guardati dagli occhi forti di chi ci stà di fronte che di noi lettori si fida. È una sensazione di piena accoglienza, quasi in leggero contrasto con la personalità schiva, modesta dell’autrice che non cerca ribalte o riflettori ma che compie il proprio lavoro a piene mani, in silenzio, con parsimonia.
C’è un fortissimo senso creaturale nelle poesie di Azzurra, una grazia dell’occasione, una religione delle memorie: i luoghi narrati ad esempio, contengono altri luoghi. Le luci delle azioni fondano gli atti definitivi ma per prospettive, superando la semplice nostalgia o l’osservazione statica.
La poetica snoda allora con garbo, in punta di dita, definitiva e con il senso dell’appartenenza senza essere però preda della casistica, senza essere caricaturale quando è in uso il dialetto o spossante per intimismi nei due linguaggi. No, anzi: si apre. Diventa larghissima, dolce di terra in cui stendersi – occhi al cielo – e respirarne l’odore tutto, a pieni polmoni.
Dalla raccolta Con ordine (LietoColle 2005)
il limite
appoggio la fronte alla finestra
poco diversa da una goccia
che quando piove scivola lenta
e allora penso alla tenerezza,
alla mia poca dimestichezza.
Con ordine
Disposte le cose stanno
in un ordine da mano venosa
la madonnina con l’orologio sopra il televisore
e intorno l’odore di cucinato e il frigo che ronza.
ordinaria è la mostra del tempo
lo star dentro le ossa macinate
un giorno poi un altro
fino al lasciare tutto cosi-
inasprito dal mancare.
Lutto
E adès a’i ho da vudèr l’armèri
e trovv tòott ‘dti zavaj che a’ie vlù ‘na vida
a meter insemm e me in dù dé li ho bèli totti cuntà.
Ciapp in mèn al tù partfoj
comm’ al farj un lédér.
Chi san, mé, pàr savér
cos’al và tgnù e cos’al và cazè vj
me vurj sulamant il mì pòst ma
po a’ pens: i mj zavaj an’son brisa méj d’i too
ma a’m vool de pòst e ciàp un sàc
e ‘i caz denter incossa
i vestè par i puvràtt i quaderne con i cont
che tànt jen bèli scadù da un pez
e ogni queel c’a togg in meen
t’i è tè, e zig
parchè me an’te vurj mia cazer int’al rusc
comm’un boton sanza la gabena
che anc’al sèrt al s’è scurdà ed chi l’è.
E adesso devo svuotare l’armadio/ e trovo tutte queste cianfrusaglie che c’è voluta una vita/ a mettere insieme e io in due giorni le ho già tutte contate./ Prendo in mano il tuo portafogli/ come farebbe un ladro./ Chi sono, io, per sapere/ che cosa va tenuto e cosa va buttato via/ io vorrei solamente il mio posto ma/ poi penso: le mie cianfrusaglie non sono meglio delle tue/ ma mi serve del posto e prendo un sacco/ e ci butto dentro tutto/ i vestiti da dare ai poveri e i quaderni con i conti/ che tanto sono già scaduti da un pezzo/ e ogni cosa che prendo in mano/ sei tu, e piango/ perché non ti voglio buttare via/ come un bottone senza il cappotto/ che anche il sarto si è scordato di chi è.
tra amici
non è poco noi che andiamo sulla qualsiasi macchina
scassata o solo brutta
i piedi li appoggio qui davanti li guardo e fuori
le luci la strada ma non è solo l’aria
che tampona con fare estivo nel riportare i suoni degli altri
come fa con le finestre aperte le notti di luglio
che a casa di mia nonna c’è sempre una festa
però intorno nei paesi da qualche parte
e io non la vedo ma la sento mescolata qui
alle cicale alla tua voce e mi chiedo
cos’è che si raccontano le persone
cosa portano sotto quella maglie in quel groviglio di organi
e scopro cosi tutto quel rannicchiarsi sotto la pelle di
spezie pergolati nomi di donna canzoni un’estate quando e il
giorno in cui e quella sera che
il tutto non necessariamente in quest’ordine
e mi dico quest’afa da preciso giorni di calendario
non li senti i gatti miagolare
le luci accendersi colorate
la stoffa addosso poi una chitarra forse
e noi qui a scoprire per la prima volta
che il posto che abitiamo è un quando.
in vetta
me ai’era lè
che turneva ‘a cà
ai’era int’la machina
in vetta ala collina
e guardava inzò.
am piazrì ed saveir
cum’ela che me
quasò da par me con sulament
i coli, du elbèr e quater sass
e tott cetra roba int’ la testa
cum’ela che me aj’arrii da zingher –comm tì stuppid!
da zingher! C’sa voot ca’tscia da zingher!—
non so mia… me am peer… acsè beel… c’am fa ‘na pòra
me a’i ho
pòra
una pora che tott’i moran sanza che me
si stà brisa bona ed dirgli abasta comm’i èn bèl.
me turneva a ca’ int’una machina ac’se vlosa
c’an basteva mia la strèda pe’ diir
amig meder peder noni montagna zil
m’avii da perdunèr! Se an so mia bona se
i nomm pe’ciamer vuèter an’li trovv mia!
Tornavo a casa/ ero in macchina/ sulla collina/ e guardavo giù./ vorrei proprio sapere/ come mai io/ quassù da sola con soltanto/ i colli, due alberi e quattro sassi/ e tuta quell’altra roba nella testa/ come mai mi sento da piangere. che stupida!/ da piangere! che vuoi che ci sia da piangere!--/ non so… mi sembra… cosi bello che mi una gran paura…/ io ho/ paura/ una paura che tutti muoiano senza che io/ sia stata capace di dirlo abbastanza/ Io tornavo a casa su una macchina cosi veloce/ che non mi bastava la strada per dire/ amico madre padre nonni montagna cielo/ mi dovete perdonare se non sono capace se/ non lo so trovare i nomi per chiamarvi.
Inediti
*
Chissà se è poi vero
che ogni pianta è da per sé
e che estranea è foglia alla foglia
e che di solitudine immensa si veste il giardino
e così anche noi
rinserrati nei palazzi,
tra le cose, con le facce indurite
chissà se poi è vero.
Giardino delle rose
Ad Andrea
Tun’ mé mai portà un fior
ma tott un zardén
brisa ‘na canzon dl’orchestra
ma la musica intira.
Me, a’i ho sol ‘sti dù parol
rott e scalcagnà.
La vida l’è bela, al sèt?
non mi hai mai portato un fiore/ ma tutto un giardino/ non una canzone da concerto/ ma la musica intera./ Io, ho solo queste due parole/ rotte e malmesse./ / La vita è bella, lo sai?
Secondo pomeriggio
Sotto il pieno delle nuvole, a bordo campo,
ci sono quelli che guardano i ragazzini calciare,
oppure un altro, un’altra cosa piccola,
il silenzio prima di prendere una carta
dal mazzo scuro e unto del bar, una volta,
quando per i vecchi c’era ancora il fumo
l’odore di MS, di Nazionali
dentiere scoperte e dita arancioni e
boja d’na vaca a’m vliva un ass
e la Carla che passa lo straccio sul banco
toglie i fondi, i cerchi rossi,
con le dita grosse di chi lava troppo
e con su lo smalto gli anelli d’oro
Carla segna - Nino l’ha vit’un’etra zocleda
e anche io me le ricordo le mie
i cimeli raccolti nel mobilino in alto a destra
e la nonna che si stimava del nonno
il più brev a briscla ed tutt’e dopolavor
anche se lo sgridava perché usciva sempre
ma poi prima di uscire lo pettinava
e me li ricordo così, sulla porta,
lui già in giacca e cappello
lei dietro col pettinino alzato
nella cornice del cielo prima di sera,
con la luce che cambia.