Shéhérazade è una meravigliosa creatura capace di incantare un re e di salvarsi dalla scimitarra del boia, attraverso un mezzo antico quando il mondo: il “racconto”. Shéhérazade, come scopriremo leggendo, inizia un racconto e non lo termina affinché il re prolunghi ancora per una notte la sua vita. Le Mille e una notte è il racconto dell’intelligenza, dove l’intreccio cattura l’attenzione e la trama nutre la curiosità fino a dire -voglio sapere cosa succederà-. In fondo è la storia del mondo, di uomini e di cose. Una storia che solo la nobile arte del raccontare, può eternare. Storie arabe, persiane, di culture antiche, tramandate oralmente, trovano collocazione in quest’opera che cattura e incanta a tutte le età e che apre la mente a considerare l’uomo e il suo rapporto con la vita. Storie semplici di un lontano Oriente, che ci immettono in luoghi segreti come l’harem del sultano, che ci coinvolgono in mille avventure, che ci trasportano in luoghi fantastici tra il sogno e la realtà. Il vero protagonista è però il “racconto” che non finisce mai di incantare il sovrano. Scopriremo, attraverso la lettura chi è questa meravigliosa creatura rappresentata in tutti i linguaggi espressivi, divenuta nell’immaginario collettivo simbolo di bellezza, di sensualità e di intelligenza. Il re che si credeva forte e potente viene vinto e conquistato dal coraggio, dall’astuzia di una donna colta e scaltra, dal fascino della sua voce.
La letteratura araba affida a una voce femminile il delicato compito di destare la curiosità, suscitare l'interesse, comunicare la piacevolezza e infine il desiderio di ascoltare ancora. (Anna Lanzetta)
Storia del re Shahriyar e della bella Shéhérazade
Si narra che un tempo due fratelli, della potente dinastia dei Sasanidi, regnassero su un immenso impero. Shahriyar era il maggiore e Shahzamàn il minore. Shahriyar era un cavaliere assai temuto perché era un guerriero focoso e invincibile. Aveva esteso i confini del suo regno, assoggettato paesi e imposto la sua autorità ai sudditi, che erano severamente obbligati ad obbedire alle sue leggi. Quando conquistò il paese di Samarcanda, volle che il fratello Shahzamàn ne assumesse il governo.
Trascorsero parecchi anni. Shahriyar era ormai un sovrano potente e il suo impero si era esteso fino all'India e alla Cina. Un giorno, colto dalla nostalgìa, volle invitare suo fratello per riabbracciarlo. Inviò quindi il suo visir, il quale, ricevuto l'ordine, si mise subito in viaggio. Viaggiando di giorno e di notte, presto il visir raggiunse Samarcanda. Shahzamàn, avvisato del suo arrivo, gli andò incontro in segno d'accoglienza e di rispetto. Il visir gli comunicò il desiderio del sovrano. Shahzamàn, per obbedire subito al suo re, diede al visir una residenza fuori città e gli inviò una quantità di provviste per organizzare il viaggio di ritorno. Insieme gli procurò ricchi e rari doni, mentre nel frattempo nominava un saggio ministro per governare il regno di Samarcanda durante la sua assenza. Alla vigilia della partenza, il re s'intrattenne tutta la sera col gran visir. Poi tornò a palazzo per congedarsi dalla sua sposa. Quando entrò nella camera, egli vide la regina in compagnia di un giovane sguattero. Shahzamàn non credeva ai suoi occhi e in breve fu preso da una violenta collera. Sguainò la sciabola e uccise la donna e lo sguattero gettandone i cadaveri nel fossato che circondava le mura del palazzo. Poi uscì dalla città e raggiunto il visir, diede immediatamente l'ordine di partire. Shahzamàn era però in preda ad un tormentoso ricordo: l'oltraggio subito per colpa di sua moglie, che aveva osato tradirlo con un semplice garzone.
Il lungo viaggio non ebbe mai interruzioni. Re Shahriyar gli andò incontro e dimostrò il suo affetto ospitandolo in un palazzo vicino al suo. Shahzamàn, grato e commosso dalle attenzioni del fratello, stava sempre in sua compagnia, ma nei momenti in cui si trovava solo lo riprendeva quel cupo pensiero. Egli soffriva e non si confidava con nessuno. Si convinse d'essere l'unico uomo a dover patire una simile disgrazia. Il sultano notò che il fratello di giorno in giorno deperiva. imputò questa malinconia al fatto che avesse nostalgia del suo regno e della sua famiglia. quindi pensò di rimandarlo a Samarcanda. Prima di congedarlo gli propose una battuta di caccia, ma Shahzamàn, davvero indebolito, chiese al suo sovrano il permesso di starsene a palazzo. Il gran re non volle insistere, gli accordò il permesso e partì per la caccia. Shahzamàn si ritirò nel suo palazzo e, messosi alla finestra, lasciò vagare il suo sguardo sul bel giardino e i suoi pensieri nei suoi brutti ricordi. Improvvisamente, da una porta segreta del giardino, comparve la sultana con venti damigelle. Convinte d'essere sole, presero a togliersi i veli e così Shahzamàn vide che dieci erano uomini mori, gli innamorati delle dieci damigelle. Anche la sultana non restò sola: al suo richiamo, scese da un albero un altro moro che subito raggiunse l'amata. Shahzamàn sbigottito si rese conto che non era affatto il solo uomo ad essere colpito da una simile sventura, che anzi poteva abbattersi addirittura sull'uomo più potente della terra. Di riflessione in riflessione, si consolò della sua disgrazia e riacquistò il suo buonumore. Quando il sultano fu di ritorno non mancò di notare l'incredibile cambio d'umore del fratello. Se ne rallegrò, ma ne fu così sorpreso da chiedergliene il motivo. Shahzamàn esitò e lo pregò di dispensarlo dal rispondere, ma il sovrano, più curioso di prima, gli ordinò di parlare. Shahzamàn gli raccontò l'infedeltà della regina di Samarcanda e quella della sultana. Il sultano, sdegnato e incredulo, ordinò una nuova battuta di caccia e, quando tutti lo credevano lontano, vide coi suoi occhi l'infedeltà della sua sposa. Triste e deluso, il sultano propose al fratello di ritirarsi dal mondo insieme a lui, e vivere una vita semplice nascondendo le loro disgrazie. Solo se avessero incontrato qualcuno più sventurato di loro sarebbero tornati a governare i loro regni. I due fratelli, d'accordo, partirono. Ma il loro vagabondaggio fu breve, infatti furono testimoni di un avvenimento assai strano. In riva al mare, s'imbatterono in un genio nero e gigantesco, orribile e maligno. Il genio dormiva, tenendo incatenata a sé una bellissima donna. Il genio aveva rapito la fanciulla il giorno delle sue nozze, per averla tutta per sé. La prigioniera, vedendo che il genio dormiva, invitò Shahriyàr e Shahzamàn a stare con lei, minacciandoli altrimenti di svegliare il suo terribile padrone. essi dunque dovettero sottostare alla sua volontà. anzi, per sua richiesta dovettero suggellare quest'atto donandole entrambi i loro anelli. La bella li ritirò soddisfatta in un sacchetto che ne conteneva ben novantotto. Ella rivelò ai fratelli sbalorditi che gli anelli le erano stati donati, nelle stesse condizioni, da altrettanti uomini diversi, a dispetto della stretta sorveglianza cui la sottoponeva il suo geloso padrone. Dopo quest'avvenimento, i fratelli, persuasi d'aver trovato nel genio una creatura più disgraziata di loro, fecero ritorno ai loro regni.
Shahriyàr, ormai convinto che le donne fossero tutte, per natura, delle creature infedeli, una volta rientrato a palazzo non solo diede l'ordine di strangolare la moglie, ma decapitò egli stesso, con la sua spada, tutte le damigelle della sultana. Preso da un'ira e da uno sdegno profondo, Shahriyàr non si limitò a questo castigo, ma per evitare il tradimento delle mogli che avrebbe preso in seguito, decise di sposarne una ogni notte e di farla strangolare al mattino seguente. Stabilì di far osservare questa legge spietata dopo la partenza del fratello. E così fu.
Il gran visir, ogni giorno, doveva condurre al sultano una donna. Il mattino seguente era costretto ad ucciderla e allo stesso tempo doveva procurare un'altra giovane per la notte seguente. Ogni desiderio del sultano era legge in quel regno e per quanto il visir detestasse eseguire quegli ordini, era tenuto ad obbedire al suo padrone con assoluta sottomissione. Molte fanciulle persero così la loro vita e presto tanta crudeltà suscitò tra i sudditi dolore e disperazione. Anche il gran visir aveva due figlie: Shéhérazade, la maggiore, e Dunyazàd, la più piccola. Shéhérazade era bella, intelligente e assai istruita.
Un giorno Shéhérazade disse: «Padre, desidero unirmi in matrimonio col sultano Shariyàr: o riuscirò a liberare dal pericolo questa povera città, o morirò come le altre donne». Il gran visir rimproverò aspramente la figlia, dicendole che era una sciocca presuntuosa e imprudente. Ma Shéhérazade insistette con tale determinazione da costringere il padre a presentare la sua richiesta al sovrano. Quando il re vide il suo visir proporgli per la sera stessa sua figlia, si sorprese e lo avvisò duramente che non avrebbe fatto alcuna eccezione alla condanna a morte. Dolente il gran visir manifestò la ferma volontà della figlia che, nonostante i suoi ammonimenti, non chiedeva altro che diventare la moglie del re. Il re, compiaciuto e incuriosito, accettò.
Shéhérazade, felice, si preparò. Poi chiese alla sorella: «Dunyazàd, quando sarò dal sultano, farò in modo di farti chiamare. Tu vieni e chiedimi di raccontarti una favola». La sorella promise. La sera il gran visir condusse Shéhérazade da Shahriyàr. Shahriyàr si dilettò a lungo con la fanciulla e alla fine la bella si mise a piangere. Il re si stupì e le chiese ragione delle sue lacrime.
«Vorrei salutare per l'ultima volta la mia sorellina, prima che spunti l'alba». Il re esaudì il suo desiderio. Dunyazàd arrivò e si mise, silenziosa e tranquilla, in un angolo della stanza. Prima del levare del sole, ella chiese graziosamente alla sorella maggiore di narrarle una delle sue belle favole, poi si sarebbe accomiatata per sempre... Shéhérazade si rivolse timidamente al re: «Mi permetti di raccontarle una storia?». Il re acconsentì. Segretamente felice, Shéhérazade iniziò dunque a raccontare. Ma non aveva ancora concluso la storia, quando arrivarono le prime luci dell'alba. Shéhérazade s'interruppe. Il re era nervoso perché voleva conoscere la fine del racconto. Dunyazàd disse: «Come è bella questa storia!», e Shéhérazade: «Questo è niente in confronto a come procede; se il sultano mi concede la vita per un altro giorno...». Il re, divorato dalla curiosità, rinviò la condanna al giorno seguente. Così la notte seguente si ripetè quello che era accaduto la sera prima. Ogni notte l'abile Shéhérazade sospendeva il suo narrare per riprendere il racconto la notte successiva. Così trascorsero mille e una notte. Nel frattempo la regina Shéhérazade aveva avuto tre figli maschi. Quando arrivò a concludere la sua ultima favola, si presentò al sultano e, tenendo fra le braccia i tre bambini, lo supplicò di risparmiarla per non renderli orfani. Il sultano, commosso e affascinato dalla bella principessa, cancellò la legge spietata e visse lunghi anni sereni con lei. Il cuore coraggioso di Shéhérazade aveva così conquistato il duro cuore del sovrano e salvato la vita di molte fanciulle. La sua sapiente e paziente dolcezza l'avevano resa felice regina di quel regno, per sempre.
La storia di Shéhérazade e del sultano Shahiriyàr costituisce la cornice che comprende tutti i racconti de Le mille e una notte.
E il racconto continua…