Non fu Il Grande Incubo, come viene dipinto a posteriori da revisionismi vari. Fu per certi versi davvero Il Grande Sogno: un'età in cui si pensava di poter mutare il mondo con la forza visionaria delle idee – la Fantasia al potere, lo ricordate?, avrebbe prodotto minori guasti che tanta Realpolitik o tanto celebrato pragmatismo –, abolendo guerre e ingiustizie sociali, sovvertendo consolidate ipocrisie, rifacendo il mondo in veste più a misura dell'essere che dell'avere. Se non fu età dell'oro – e poi sarebbero giunti gli anni di piombo, famigerati, con stragismi e strategie della tensione assortite –, fu però la promessa e l'aspettativa di qualcosa di meglio per il genere umano, di splendidi orizzonti e infiniti cieli da esplorare. Chi? Il Sessantotto.
Vero è che ci fu, l'altra faccia della medaglia, un dogmatismo ideologico che spinse e si spinse altrove, a oltranza – verso i nefasti effetti del terrorismo –, o che l'apologia delle sostanze stupefacenti ne ha uccisi tanti, ma rispetto a questo presente più che drogato, assopito, ammorbidito, narcotizzato, omogeneizzato, omologato, specchio di falsi bisogni, di morte della speranza, di piccolo e meschino cabotaggio quotidiano, di voltagabbanesimo e prepotenze inaudite, con potenti strapotenti e strafottenti e impuniti, il Sessantotto e dintorni va ripensato in positivo, fra creatività e desideri dell'anima, ricerca di sé, pacifismo e altri mari ancora di possibilità. Altro che demonizzarlo! Un punto di vista, s'intende. Ma... discutiamone.
Il grande sogno di Michele Placido, un bel film. Intellettualmente onesto, non partigiano ma voglioso di comprendere, il regista, partito celerino e finito attore, s'imbatté nelle ragioni di due regioni contrapposte. Anche se al riguardo non va dimenticata, intelligentemente “controcorrente”, la lezione pasoliniana – quanto ci manca PPP... –, necessario elemento di contraddittorio e dialettica, ciò che oggi veramente è assente. Un bel film, dicevamo. Autobiografico, con il pubblico che s'incrocia, pericolosamente, con il privato (e viceversa). Come accade oggi. Peccato che nella contemporaneità si tratti piuttosto di melma assortita e disgustoso intreccio fra politica (rovinato per sempre il bell'etimo!), gossip e malaffare.
Nicola (Riccardo Scamarcio in un'ottima interpretazione) è il bel poliziotto con la vocazione di attore che da infiltrato s'innamora dell'universitaria Laura (Jasmine Trinca) – ragazza “ribelle”, che osa interrogarsi e rimettere tutto in discussione, di una famiglia della media borghesia romana che stenta a capire, spiazzata dall'evolversi degli eventi eppure, nonostante tutto, mattone che tiene dell'edificio sociale cascante – in competizione con Libero (Luca Argentero), attivista senza mezze misure. Nicola lascerà infine la Polizia per entrare all'Accademia di Arte Drammatica. Succederà di tutto, fino all'epilogo drammatico, amaro, il segnale ad ogni modo di nuovi sentieri esistenziali, più consapevoli.
Rivive il clima di un'epoca (irripetibile?): l'occupazione dell'Università, gli scontri di Valle Giulia, le assemblee permanenti, contadini “sparati”, il libero amore, la scelta – ahinoi! – marginale e infelice, con superficialità, della lotta armata, ma anche il trionfo del sapere esteso, dell'empatia sociale e dell'impegno civile.
Una pellicola forte, non banale, da rispettare.
Dove sono ora i figli di quel tempo? Dispersi? Nei ranghi della società? Integrati?
Il confronto con l'oggi è in ogni caso piuttosto impietoso. A un certo punto compare un ministro democristiano a sviscerare e spiegare alla stampa e alla gente un accordo sindacale che quasi rifulge per moderazione ed equilibrio rispetto a certi ministri dell'oggi, autoreferenziali, imperativi, quasi imperatori, smodatamente aggressivi, con cipiglio feroce, apocalittici.
Se le industrie delle armi continuano a ingrassare e il profitto è dio, e olia sempre le sue armi l'industria finanziaria globale, con le sue speculazioni, virtualità, fasullità e imbrogli veri, viva allora il Sessantotto con le sue istanze di libertà e dignità! Ma questa è una meditazione personale, a latere.
Per quel che concerne Il grande sogno, rimane tuttavia suo indubbio merito quello di saper suscitare riflessioni distruggendo verità imbalsamate e risollevando il velo (o sudario?); un'opera di fantasia, non un dotto saggio, ma la verosimiglianza in tale caso è sinceramente parente del vero.
Straordinario il cameo di Laura Morante, nella parte di un'insegnante all'Accademia di Arte Drammatica. Bellissima e bravissima come sempre, il suo ruolo è, nel dubbio e nella malinconia che le navigano nell'anima, paradigmatico.
Alberto Figliolia