Telluserra
Giorgio Bussa. La casa dei doganieri
Carlo Levi, “Ritratto di Eugenio Montale”, 1941
Carlo Levi, “Ritratto di Eugenio Montale”, 1941 
22 Giugno 2025
 

Una poesia, considerata un capolavoro dell’ermetismo italiano, “La casa dei doganieri” di Eugenio Montale, è dedicata a una donna, che non ricorda la casa, in cui è entrata una sera insieme al poeta; una casa, che sembra ormai in disuso, costruita “sul rialzo a strapiombo della scogliera”, sulla linea di confine fra terra e mare. Ha un vasto panorama davanti a sé, ma un senso di solitudine e di abbandono la pervade, da quando una sera li ha accolti, e da allora lei non è tornata, e non ha riportato quello che il poeta chiama “lo sciame dei tuoi pensieri”: di esso è fatta la sua presenza misteriosa, di cui dentro la casa è rimasto il ricordo. La metafora per esprimerla è presa dal magico mondo delle api e dalle geometrie dei loro voli. Si intravedono sogni, inquietudini e turbamenti, che cambiano e si alternano, seguendo i ritmi della giovinezza, secondo una logica sconosciuta.

Confrontata con la prima, la seconda strofa crea uno scenario nuovo e sorprendente, fuori e dentro la casa dei doganieri; il tempo stesso è cambiato, insieme con la natura circostante e gli oggetti interni. All’esterno, dove prima si poteva sentire la solitudine, ora soffia con la forza di una sferza libeccio, il vento del sud e del mare nella Liguria del poeta. L’azione del vento e del tempo sui muri della casa li rende simili alle mura delle città antiche, per le quali sono passati i secoli; essa influenza anche il suono, che non è più lieto, nel riso della donna. Qualcosa, nel sentimento del poeta, la accomuna alla casa dei doganieri. Una impressione che ritorna all’interno, dove oggetti familiari nella casa servono come nuove metafore: la bussola ha perduto l’orientamento, come capita talvolta alla mente, e i dadi, mescolandosi, impediscono i calcoli e rendono incerti i numeri. Il “Tu non ricordi” ritorna alla fine della seconda strofa, ma assume un altro significato rispetto all’inizio della prima, perché un “altro tempo”, non più quello dei sogni sfuggenti della giovinezza, simili allo sciame, “frastorna la memoria”. Bisogna riconoscere che il poeta sta parlando di periodi della vita diversi, come se si trovasse contemporaneamente alla fine sia dell’uno sia dell’altro. Quando scrive nel 1932 “La casa dei doganieri”, inserita nella seconda delle sue raccolte, Le occasioni, Eugenio Montale ha 36 anni, un’età in cui si guarda da uguale distanza al tempo passato e al futuro. Il poeta vede la scena della prima strofa guardando indietro al passato, e scrive le altre strofe sentendosi già nel futuro, quando anche le persone saranno invecchiate insieme coi muri e gli oggetti della casa.

La poesia, componendosi di quattro strofe alternate con cinque e sei versi, si può dividere in due parti uguali per dimensioni. Al centro della poesia, cioè alla fine della seconda strofa e all’inizio della terza, compare la metafora, che non poteva mancare, del filo. Essa si trova nel linguaggio comune per indicare la vita, il discorso, i pensieri, i ricordi, e si trova nel mito greco, col filo delle Parche e con quello di Arianna, che consente di ritrovare la strada per non perdersi nel labirinto della mente. La metafora compare con due frasi egualmente brevi: esse costituiscono il centro della poesia. Una riassume l’esperienza della donna, per la quale “…un filo s’addipana”, riavvolgendosi su sé stesso, condizionato dal tempo e dalla vita. L’altra introduce la seconda parte della poesia, dove diventa protagonista il poeta, parlando di sé in prima persona. “Ne tengo ancora un capo” egli dice, ma la casa si allontana, sbiadendo nel ricordo, e sul tetto “la banderuola affumicata gira senza pietà”, come per attirare l’attenzione e distrarre da altro. È segno che un ricordo contrastato, cui si oppone una resistenza, vuole riaffiorare, aiutato da un concetto già espresso prima: “Ne tengo un capo”. Seguendo il filo, il poeta rivede la donna sola, così diversa da quando erano insieme; e così riaffiora poi il ricordo dei momenti di intimità vissuti nella casa, con il respiro che si sentiva nell’oscurità.

Il ricordo, date le circostanze, può sembrare al poeta una profanazione. Perciò il pensiero esce dalla casa e si allontana bruscamente, raggiunge il punto più lontano, l’orizzonte, e anche questo sembra allontanarsi, perché la luce di una petroliera si accende a intermittenza. Adesso il poeta può riavvicinarsi alla casa, dalla quale bisogna uscire insieme coi ricordi. C’è un dubbio sulla posizione del varco per uscire, ma c’è una certezza sull’eternità dell’acqua, che si rifrange “sul rialzo a strapiombo”, diventato coi sinonimi “la balza che scoscende”. Non rimane che concludere. C’è da fare una sintesi del contenuto: lei non ricorda, e il poeta può sentire come soltanto sua, almeno per una sera, la casa dei doganieri. E c’è da fare un’operazione molto difficile, con l’ultimo verso, neppure intero: dare un senso ai problemi del ricordare e del dimenticare. Il poeta si affida a tre verbi: “…non so chi va e chi resta”, difficili da spiegare. Il passato ci lega e ci trattiene, o ci arricchisce col ricordo delle esperienze nel muoverci nel presente e nell’andare verso il futuro? Non c’è una risposta unica, e rimane difficile giudicare nel concreto.

 

Giorgio Bussa


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