Non mi perdevo un incontro di Nino Benvenuti.
Mentre non ho ricordi della doppia sfida con Sandro Mazzinghi – per certi versi i caratteri dei due erano antitetici, come diversi erano i modi di boxare per una rivalità accanita, ma imbevuta di rispetto – i match con Emile Griffith sono scolpiti nella mia memoria, così come quelli con Carlos Monzon. Le radiocronache, i servizi giornalistici, il tam-tam popolare…
Quella sera del '70 vidi l’incontro che opponeva Nino a Carlos nella piccola camera da letto di mia nonna, in via Inganni 11, in una periferia milanese chiazzata di campagna. Avevo dodici anni, l’età dei sogni che vorresti prendessero vita.
Fu una sera tremenda, con un amaro in bocca che non se ne voleva andare.
Spensi il piccolo apparecchio televisivo (era l’epoca di due soli canali nazionali) posto in cima a un mobiletto nell’angolo sinistro della stanza e mi coricai. Ma non riuscivo a prender sonno.
Le pareti trasudavano buio.
L’uomo venuto dal Paese delle pampas, oltre il vasto oceano solcato dai bastimenti d’infiniti migranti, aveva demolito colui che nel nostro immaginario era un idolo: incontrastato, invincibile.
Nino era un maestro di tecnica, sopraffino, ma anche coraggioso (vedi la rivincita con il fuoriclasse argentino in quel di Montecarlo, che ebbe un esito anche peggiore, con getto della spugna), ed era bello, con una presenza fisica che non passava certo inosservata. Un simpatico guascone, ma di sostanza. Un divo senza divismo, di una genuinità condivisa, contagiosa.
Allora i suoi incontri erano un evento imperdibile – sin dall’oro olimpico di Roma nei welter – come ogni partita della Nazionale di calcio, in un bianco e nero che aveva il sapore della nostalgia nello stesso presente in cui si svolgeva.
Da adulto sarei andato due volte a Isola d’Istria, sua città natale. E mi sorprendevo a cercare le tracce del bambino Nino che da lì era stato costretto a spostarsi a Trieste, dopo la tragica disfatta e rovina della Grande Guerra. Terre aspramente contese e l’incipit di un malinconico esodo…
Trovai vento e neve, sole e mare, meravigliosi scorci veneziani, un tramonto forte come il vino e denso come l’olio di quei luoghi. Erano il panorama esistenziale di Nino, insieme con quello della romantica tormentata letteraria Trieste, patria dell’altro Golden Boy, alias Tiberio Mitri.
Perché si potrà anche eccepire sul pugilato in quanto sport, ma ogni storia di pugile è più che interessante, sempre rispettabile ed emblematica e mai banale.
Nino, campione del mondo nei pesi superwelter (o medi jr.) e nei medi. Un gran bel record. Soprattutto elegante, pure immaginifico se non visionario (andare tre volte negli States per conquistare la corona non è da tutti), stile impareggiabile, intelligenza. Non certo una mera emanazione di forza bruta. Noble art…
Nino, una vita sul ring per diventare amico dei suoi avversari.
Nino, uomo dal sorriso generoso.
È giunta l’ora dell’ultimo gong. Adesso con Emile, Carlos e Sandro è nei cieli dell’eterna armonia.
Alberto Figliolia