Sadie Dingfelder
Ci siamo già visti?
Traduzione dall’inglese di Francesca Pe’
Iperborea (Altrecose), 2025, pp. 320, € 20,00
“Questo libro è tratto da una storia vera. Alcuni dialoghi si basano su conversazioni registrate, altri sono stati ricostruiti a posteriori”. Questo si legge sul frontespizio di Ci siamo già visti? uscito a New York nel 2024.
A chi non è mai capitato di incontrare una persona che gli sorride e lo saluta in modo familiare, mentre lui non ricorda di chi si tratta? Magari è un volto che ha già visto, ma dove? in quale contesto? e come si chiama? L’imbarazzo è grande. Personalmente mi salvo ascoltando l’interlocutore con un sorriso e chiedendo presto notizie sulla famiglia: solo quando si ricompone il quadro familiare il personaggio acquista una collocazione. Ma può succedere di risolvere così, e non senza imbarazzo: “Scusami, ricordo il tuo volto, ma non ricordo il tuo nome”. Del resto sono tante le persone e i luoghi della nostra vita. Poi ne parli con gli amici, di questa smemoratezza, e scopri che non capita solo a te, allora finisci per dare colpa all’età che avanza.
Poco da consolarsi, perché a un certo livello si può trattare di una anomalia del funzionamento del cervello: questa è “cecità per i volti” o meglio definita prosopagnosia, come nel caso della giornalista scientifica Sadie Dingfelder che si è rivolta a uno sconosciuto al supermercato scambiandolo per suo marito, e ha scambiato la zia per la propria madre. “Per quarant’anni e passa non mi ero resa conto di avere difficoltà a fare cose che per gli altri sono semplicissime […] Io non dimentico i nomi, dimentico le facce. E a causa della mia particolare combinazione di disturbi neurologici e stranezze, dimentico anche le persone, non solo come si chiamano, ma proprio che esistono”.
Si tratta di una anomalia “di quella zona specializzata del cervello detta area facciale fusiforme o FFA”, che alle persone permette di percepire i tratti di un volto, metterli in rapporto tra loro, e generare un’immagine riconosciuta in modo “più veloce di quanto potrebbe fare il computer più all’avanguardia”.
Iniziando a indagare su di sé, la giornalista contatta i neuroscienziati più famosi, legge tutto ciò che trova sull’argomento, si sottopone ai test più avanzati nei centri di ricerca universitaria, e scopre altre neurodivergenze con le quali ha convissuto considerandole aspetti della propria originalità: si tratta di stereocecità, cioè di non percepire la profondità dello spazio, e di afantasia, o impossibilità di crearsi immagini mentali, cioè lei non dispone nemmeno della possibilità di rivedere mentalmente i momenti, le persone, gli elementi concreti del suo passato.
Non le manca l’anomia per i nomi propri: è più facile ricordare che qualcuno fa il fornaio, associandolo al pane, alla sveglia all’alba, che ricordare uno che si chiama Baker, fornaio, appunto, precisa Sadie Dingfelder. Senza dimenticare, tra le sue neurodivergenze, l’agnosia topografica: “Mi capita continuamente di trovarmi in situazioni in cui non so dove sono, o cosa dovrei fare di preciso o con chi sto parlando”. Indagando su di sé si rende conto infatti che “i disturbi del neurosviluppo sono come i topi: quando ne vedi uno, significa che ce ne sono altre decine nascoste sotto le tavole del pavimento”.
Vero è che questi disturbi non sono malattie, lei non drammatizza, ma allo stesso tempo capisce la ragione per cui ha grosse difficoltà a guidare la macchina, perché nessun ragazzo le ha mai chiesto di uscire, perché è stata sempre parecchio sola.
La consola il fatto che convive con il suo strambo cervello da più di quarant’anni e ha potuto fare la giornalista scientifica: ha scoperto la cecità per i volti nel 2010, leggendo un articolo di Olive Sacks sul New Yorker, ma all’inizio è stata restia a diagnosticarsi il disturbo di Sacks, salvo poi iniziare una ricerca sempre più ampia e approfondita, per rispondere alla domanda: “Devo preoccuparmi? C’è qualcosa che non va in me?” Il padre la rassicura sorridendo: “Non hai niente che non va, sei soltanto un po’ goffa”.
Non solo si mette a disposizione della ricerca, ma indaga personalmente in rete, entra in un gruppo dedicato alla cecità per i volti, e scopre storie di sofferenza, come quella di una mamma che vive nel terrore di portare a casa il figlio sbagliato, quando va a prenderlo a scuola; o del tizio che ha ignorato la sua ragazza al pub e lei non gli ha più rivolto la parola. Per fortuna i test a cui si è sottoposta hanno rivelato che per quella neurodivergenza lei è appena sotto la media.
Senza dubbio sono state proprio queste neurodivergenze a farle mettere in atto tutte le strategie per entrare nelle storie e nella vita degli altri, del resto la saggezza paterna viene sempre in aiuto: “Come si fa a parlare con qualcuno”, chiesi a mio padre, “se non si sa chi è?”
“Tutti vogliono parlare di se stessi”, rispose lui. “Basta fare un sacco di domande per diventare la persona più affascinante del mondo”.
Tanta ricerca, tanta buona volontà, tanta testardaggine, tante tecniche messe a punto si trovano in queste pagine, dove Sadie Dingfelder racconta in modo oggettivo, con la giusta ironia, con la capacità di fare sorridere di fronte alle situazioni più strane: alla fine della sua lunga indagine è arrivata a concludere che “avere un disturbo neurologico è molto meglio che essere una stronza”.
Marisa Cecchetti