Barbarah Guglielmana. Il muro delle donne
 
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   08-01-2015
ma se fossero proprio le donne a tirare giù quello scempio...?
patrizia garofalo   
 
   08-01-2015
Interessante interpretazione:


Nadia Somma Presidente Centro antiviolenza Demetra

Da sabato, in via De Amicis, a Milano, c’è una rete metallica a ridosso di un muro. Vi sono appese bambole realizzate da artisti della moda, altre bambole sono state donate da associazioni che hanno aderito all’iniziativa The Wall of Dolls. La settimana della moda maschile ha l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica al problema della violenza contro le donne impiccando bambole ad una rete. Le foto di queste bambole sono già pubblicate sul web e molte sono accessoriate dall’inseparabile ‘femminile’ borsetta. Un accostamento che scatena per associazione di idee il ricordo della cerulea statua marchigiana: Violata.
Gli organizzatori, almeno una trentina di marchi, hanno invitato donne e uomini ad appendere altre bambole a quel muro. Lo slogan si presta ad equivoci: “We are not just dolls” ovvero “Non siamo, solo, bambole”. Non solo ma un pochino si!
Siamo un po’ bambole quando devono limitare la scelta della maternità e in nome di un credo religioso, ci negano l’accesso all’aborto medicalmente assistito, perché se abortiamo ci trasformiamo in bambole assassine. E siamo, un po’ anche, bambole di pezza quando subiamo stupri. Siamo, un po’, bambole quando la moda crea abiti che non potrebbero essere indossati da una donna con il peso nella norma e in buona salute. Siamo, un po’, bambole quando stigmatizzano le nostre scelte sessuali e vogliono imporre sul nostro desiderio leggi morali. Siamo, anche un po’, bambole quando la moda e la pubblicità utilizzano le parti del nostro corpo per commercializzare ogni tipo merce, e anche quando fotografano modelle nel bagagliaio di un’auto con le gambe penzoloni solo per fare pubblicità ad un bel paio di stivali. Perché? Siamo, anche un po’, bambole e se moriamo dobbiamo farlo con eleganza anche se stiamo esalando l’ultimo respiro. Ce lo impone la nostra ‘femminilità’, questa invenzione che ci condiziona dal momento del dono della prima bambola. Grazioso feticcio in cui rispecchiarci o essere educate fin da piccole al ruolo di cura. E come rivendicare che siamo fatte di carne, di ossa, spesso incommensurabilmente differenti una dall’altra? Come lo vogliono abbattere questo muro di segregazione psicologica che ci tiene in scacco, che ci mette all’angolo, che detta come e che cosa dobbiamo essere?
La cosa più irritante è che questa iniziativa risponda ad una strategia di marketing più che alla volontà di denunciare un fenomeno. La violenza contro le donne è diventata un brand. I creativi di alcune aziende della moda hanno realizzato, negli anni scorsi, manifesti pubblicitari con modelle dal volto tumefatto molto simili a quelli adoperati per commemorare il 25 novembre. Il marketing funziona così, deve colpire allo stomaco e prescindere cinicamente dal significato veicolato con la pubblicità di un prodotto. Così tutto si confonde e perde di senso. Abbiamo denunciato il problema del femminicidio e della matrice culturale che lo alimenta, abbiamo svelato la tragicità delle violenze contro le donne e abbiamo chiesto risposte politiche. Abbiamo combattuto perché il linguaggio cambiasse. Niente da fare. La denuncia della violenza come problema culturale è stata scippata, ed è stata svuotata dai nostri contenuti e adattata ad accogliere nuovamente la cultura che produce sessismo. Il simbolico patriarcale è ancora abbastanza forte per contaminare e rimodellare a sua immagine e somiglianza le nostre parole e i nostri contenuti. La legge cosiddetta contro il femminicidio della scorsa estate ne è la prova. Eppoi La morte ci fa belle, attraenti, ci dona appeal, grazie alla morte abbiamo tutto il protagonismo che ci viene sottratto come genere (o ci sottraiamo da sole) nella vita. Questo strisciante senso del macabro, da sabato, è appeso a quel muro e degrada una denuncia sociale a rappresentazione che ricorda gli horror di serie B.
Spero che non si abbassi ancora il livello di intelligenza, di buon gusto e di senso critico. Spero che qualche azienda di giocattoli non porti mai sul mercato qualche Ken femminicida e qualche Barbie vittima di violenza domestica o che qualche azienda di cosmesi non venda mai lividi adesivi griffati. (E spero di non aver dato suggerimenti a nessuno).
E spero ancora, che nessun altro appenda bambole su quel muro. Non cascateci vi prego!


Barbarah Guglielmana   
 

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