Lo scaffale di Tellus
Guido Hauser. Baricco, o sulla differenza tra genio e talento
21 Novembre 2009
 

Nei giorni scorsi è uscito l’ultimo romanzo di Alessandro Baricco, Emmaus, che è stato accolto da molte polemiche giornalistiche; inevitabili polemiche, mi verrebbe da aggiungere. Ma perché inevitabili?

Da qualche giorno si sta facendo spazio un’ipotesi dentro la mia testa. Provo a riassumerla.

Esistono alcuni scrittori che possiamo paragonare a degli ultras della letteratura. Donne e uomini che non sono necessariamente eruditi o particolarmente saggi; e intendo con saggezza una sorta di cristallizzazione dell’esperienza in forma accessibile, razionale. Al contrario, gli scrittori ultras accedono all’esperienza perlopiù in forma opaca, mediata dall’immaginazione e dai sensi. Sono, da un certo punto di vista – cioè appunto quello dell’organizzazione dell’esperienza in sapere – vagamente squilibrati. O detta diversamente: dei visionari.

Abbiamo invece un’altra categoria di scrittori che somiglia forse più a quella di filosofi illuministi. Il loro utilizzo della finzione è volto alla comprensione razionale degli eventi, o del sostrato magmatico del reale, che attraverso i processi della messa in scena appaiono più comprensibili.

Torna alla mente la celebre distinzione offerta da Deleuze tra genio e talento: «L’uomo di talento fa ciò che vuole, il genio ciò che può».

Ricordo che la prima volta che l'ascoltai mi apparve come una sterile provocazione, sentenziosa e vuota. Sembrava che l’uomo di talento esorbitasse: potendo tutto contro i limiti del possibile nel genio.

Invece non è affatto così.

L’uomo di talento non può tutto, ma tutto domanda. Quando il genio, al contrario, non chiede nulla. Semplicemente si lascia attraversare da voci, immagini, intuizioni che non coincidono con la propria misura biografica. Arrivano.

Insomma, la scrittura del genio è come se fosse agita, eterodiretta - dalle Muse? Mentre l’uomo di talento è un severo cocchiere delle proprie capacità personali.

Nella formulazione di un giudizio critico, è dunque importante riconoscere se il gesto espressivo è frutto di genio o di talento. Non per liquidarlo o creare stabili gerarchie di valore, ma per comprenderlo.

Calvino era ad esempio un uomo di smisurato talento, ma di scarsissimo genio. Al contrario Dino Campana era tutto genio e niente talento.

Anche nella contemporaneità possiamo avventurarci in queste distinzioni. Qualcuno si ricorda di una qualsiasi intervista ad Aldo Busi? Perlopiù egli restituisce una serie di banalità, gesti caricaturali, screziati da un rancore mai completamente dissimulato. Eppure aprendo una delle sue pagine a caso, non abbiamo dubbi: c’è del genio!

Un altro autore contemporaneo che io trovo più geniale che talentuoso, è Antonio Moresco. Oppure Paolo Nori; Vitaliano Trevisan; Milena Agus; Maurizio Maggiani; Marco Lodoli ...

C'è chi invece, come Giuseppe Genna o Michele Mari, si concede al magma espressivo del genio, ma con gli strumenti sorvegliati del talento. E anche in queste prove si può ritrovare qualcosa di interessante.

Molto più frequenti sono però i casi di genio poetico; genere che più del romanzo si presta ad essere scarmigliato dalle Muse, agito dall'estro del momento.

Ma arriviamo a Baricco.

Baricco è l’esempio forse più estremo di talentuosità. Egli fa sempre ciò che vuole, mai ciò che può. E in questo esercizio volontaristico della scrittura, si attira spesso commenti che ne sottolineano l’artificiosità, il gesto seduttivo e mai completamente naturale.

Ora, invece, il problema secondo me è un altro.

A Baricco non si deve chiedere di condurci dentro un'esperienza immediata delle cose, perché non ne è capace. E’ cioè completamente e definitivamente privo di genio.

Diversamente a Baricco si deve domandare di spiegarci le cose, che è pratica che sa fare benissimo. Il suo recente saggio sulla mutazione (I Barbari, Feltrinelli) era un capolavoro di talento, uno slancio della volontà al servizio della comprensione della dinamica del presente.
Anche in alcuni dei suoi romanzi è visibile questa capacità: di sorvegliare la lingua per condurla ad esisti conoscitivi; ad esempio rispetto alle strutture psichiche dell’ossessione (Baricco è ossessionato dall'ossessione).

Comincia invece a girare a vuoto quando si avventura dentro una materia puramente emozionale. Nonostante la padronanza degli strumenti allegorici, è come se in questi casi si avvertisse una sovrapposizione dello sguardo: tra chi vive l’emozione e chi la restituisce in una forma stilizzata, razionalmente comprensibile.

Trovo insomma fondate quelle critiche che colgono in Baricco una certa frigidità emozionale, comune per altro a tutti i grandi illuministi.

Per concludere, nelle recensioni che ho letto su Emmaus non ho colto questa sfumatura prospettica. Utile a collocare Baricco dentro il genere della finzione filosofica, più che di quella sottile arte sussurrata dalle Muse.

E così la domanda diventerebbe: attraverso quest’ultimo sforzo della volontà, Baricco ha saputo selezionare gli strumenti adeguati, la lingua, le “inquadrature” opportune per svelarci un luogo altrimenti confuso del reale? Oppure, lo stesso, è rimasto oscurato dal cono d’ombra del suo talento ...


Guido Hauser

 

 

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