Manuale Tellus
Il Vesuvio nelle impressioni di Antonio Stoppani. A cura di Anna Lanzetta
Vesuvio
Vesuvio 
24 Ottobre 2009
 

Nei tempi andati sino all'aprile del 1880 l'ascensione al Vesuvio si faceva per la maggior parte a piedi, pochi a dorso di mulo o di asino.

Riportiamo dal romanzo di Antonio  Stoppani “Il Bel Paese”,  la magistrale descrizione della sua prima ascensione: « Una gita a piedi su quella meravigliosa montagna, sotto quel limpido cielo, in faccia a quella splendida natura, in mezzo a quel continuo variare di scene, una più incantevole dell'altra, una gita a piedi, ripeto, è quanto si può immaginare di dilettevole, di estasiante. Poi pel geologo c'è tutto da osservare; principalmente per uno che vi giunge la prima volta. Quelle nere correnti di lava che arrivano fino al mare, ed oggi ancora fanno irto il lido di negre rupi e tutto frastagliato a seni, a baje che riflettono il tranquillo bagliore dell'aurora, mi avean già messo in corpo un tal fremito, una tale smania di osservazioni, che non avrei voluto lasciarmi

sfuggire inesplorato un palmo di quella montagna, ove si condensa tanta parte di ciò che il geologo ha fatto oggetto de' suoi studi. Vi assicuro che fui ben contento di aver resistito alla tentazione di pigliarmi una cavalcatura.

Si comincia ad ascendere. Dalle falde del cono fin verso la metà della sua altezza è tutto un giardino, tutto una terra promessa. Vigneti, uliveti, fichi d'India che verdeggiano fin sugli scogli più ignudi, distendendo le foglie carnose coperte di spine; agavi che slanciano esili e ritto il tronco fiorito da un cespo di foglie, che sembran fuse di getto in verde metallo: tutto è bello, tutto è grazioso, tutto ridondante, tutto nuovo per chi è cresciuto ai piedi delle Alpi.

Ma sopra questa base verdeggiante e fiorita sorge un colosso ignudo, nero come un gran mucchio di carbone; aspro e duro come una montagna di bronzo. È quello propriamente il Vesuvio, che si slancia tutto d'un pezzo da quel cinto fiorito, isolandosi in mezzo allo spazio, non avendo altro sfondo che il cielo, entro il cui seno azzurro disegna il suo conico profilo d'una regolarità perfetta. Al suo fianco verso nordovest si svolge a semicerchio la cresta dentata del monte Somma, che accenna ad abbracciare da lontano quel Vesuvio,

che nacque un giorno dalle sue viscere ».

 

Dopo la descrizione dell'ascesa, dello stesso autore riportiamo la  descrizione della discesa.

 

« La discesa dal cono fino all'Atrio del Cavallo fu una vera rivincita sopra la fatica sostenuta nell'ascendere e l'altra durata per uscire dal cratere. In quell'epoca, dalla cima del cono fino all'Atrio del Cavallo, il fianco settentrionale del monte era coperto d'un grosso strato di lapillo e di sabbia scorrevolissima, e la discesa era tale da quella parte, quale la trovereste, per ripetere la similitudine, se la montagna fosse un gran mucchio di miglio o di granturco. Come si fa? Discendere adagio è impossibile; ai primi passi sentesi il suolo mancare sotto i piedi; la montagna sembra sfasciarsi; vi par d'essere senza appoggio, quasi in aria, sopra nubi polverose, e di rotolar giù a precipizio. Ma pur si cammina... pur si discende. La via e il viandante discendono insieme; i passi si alternano, con velocità sempre maggiore; sotto i passi si muove l'orma, e intorno all'orma si muove il suolo da l'orma improntato; esso par che v'inghiotta, e voi sempre a galla; né si sfonda, né s'incespica, né si stramazza. Dunque giù a salti, a balzelloni, quasi volando sopra una nube di polvere, confusi entro un'aureola di polvere, e sotto i piedi un fragore, un crepitìo sonoro, metallico, quasi rotolasse tutto disciolto un sacco di carbonella. Finalmente ci troviam fermi nell'Atrio. Guardiamo l'orologio... sette minuti per discendere dal cratere all'Atrio del Cavallo! Sette minuti per far quella via, che nel salire ci era costata almeno un'ora e mezza!...

(Antonio Stoppani fu un insigne studioso dell'Ottocento. Nacque il 15 agosto 1824 a Lecco. Morì a Milano il 2 gennaio 1891).

  

Ricordiamo un altro sacerdote, anch'egli lombardo, e cioè Giuseppe Mercalli, 4° direttore dell'Osservatorio Vesuviano, morì bruciato da una lampada a petrolio nella sua casa in Napoli.

    

Ecco ciò che scrisse la Domenica del Corriere (sulla rivista in prima pagina a colore un disegno di Beltrame rappresentante la morte del vulcanologo): « Da lungo tempo non si parlava del Vesuvio, delle sue collere, delle sue fumarole senza non fare il nome del prof. Mercalli che tutta la sua vita scorreva in comunità col Vesuvio studiandolo e sfidandolo a tutte le ore. Mercalli era infatti il Direttore dell'Osservatorio Vesuviano, e solo a sera abbandonava per ridursi a Napoli dove viveva, solo, in due stanzette povere di suppellettili ma ricche di libri e di minerali.

E avvenne che la settimana scorsa l'illustre uomo, mentre a notte studiava, si rovesciava la lampada a petrolio sul tavolo e addosso. Egli deve aver tentato di spegnersi le fiamme, ma il fumo lo investì, lo asfissiò. Il poveretto cadde presso il letto, e solo al mattino i casigliani, ammoniti dall'odor di bruciaticcio, sfondarono la porta dell'alloggio di Mercalli e lo trovarono carbonizzato. Era bruciato vivo in una stanzetta dopo aver sfidato per tanti anni il fuoco del Vesuvio! Aveva 64 anni, e come milanese era stato allievo dello Stoppani ».

Sulla sua tomba a Milano è scritto così:

       

ABATE CAV. GIUSEPPE MERCALLI

DIRETTORE DELL'OSSERVATORIO VESUVIANO

n. MILANO m. NAPOLI

20-5-1850 19-3-1914

un'altra lapide murata all'Osservatorio e dettata dal prof.

Alessandro Malladra che gli successe:

PERVASO DAL FUOCO DEL SAPERE

CONSACRO' AL FUOCO DEI VULCANI

ALLO STUDIO DELLE CONVULSIONI TELLURICHE

TUTTA LA VITA

CHE TRA GLI SPASIMI DEL FUOCO

SI SPENSE

 

 


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