Oblò Mitteleuropa
Identità negata. “Max Gericke” di Manfred Karge
11 Ottobre 2009
 

Allievo di Bertolt Brecht e di Helene Weigel, per anni stretto collaboratore di Heiner Müller, Manfred Karge (foto), nato a Brandenburg an der Havel nel 1938, è fra gli attori prediletti da Claus Peymann, con il quale lavora tuttora al Berliner Ensenble. Karge, però, non è solo un grande attore, ma anche regista e autore di testi teatrali. Forse il più noto dei suoi copioni è il lungo monologo, suddiviso in 26 brevi quadri, Jacke wie Hose [Giacca come pantaloni], di cui Karge curò anche la regia della prima al Teatro di Bochum nel 1982 e che, sempre nel ruolo di regista, riproporrà il mese prossimo (la prima sarà il 28 novembre) in un nuovo allestimento al Berliner Ensemble.

Questo suo testo, considerato ormai un “classico” fra i monologhi teatrali, è in scena in questi giorni al Piccolo Teatro Studio con il titolo Max Gericke per la regia di Walter Le Moli. La traduzione italiana, firmata dal regista, sceglie come titolo il nome del marito defunto della protagonista, Ella Gericke, (interpretata da una convincente e molto applaudita Elisabetta Pozzi), la quale, in una serie di piccole stazioni, racconta la storia della sua personale via crucis, vissuta fra la grande crisi economica del 1929 e l’inizio del boom economico del dopoguerra.

Giacca e pantaloni sono diventati ormai il suo abbigliamento, perché la miseria della depressione economica prima e i nazisti poi l’hanno costretta a dimenticare di essere donna. Rimasta vedova giovanissima di un gruista, non sapendo come sbarcare il lunario, Ella si è semplicemente sostituita al marito, morto di cancro, per non perdere quel posto di lavoro - ovviamente ambitissimo in un paese afflitto da un elevato tasso di disoccupazione - e poter sperare di poter in futuro ottenere una pensione. Ora che per lei, «la maggior parte della vita è passata, meno male», rivede come in un film in flash back la storia della sua esistenza squallida, dove non c’è stato spazio né per l’amore né per il dolore, ma dove ogni scelta è stata fatta in nome della sopravvivenza. Per i poveri il lutto è un lusso, e la quotidianità una lotta che non lascia tempo per la riflessione, per la ricerca di senso, ma induce a decisioni rapide, spesso inumane, sempre castranti.

Nonostante l’assurdità di questa vita, il personaggio è ispirato a una storia reale, quella di una donna che indossa i panni del marito, supera ogni prova di “virilità” cui la sottopongono prima i compagni di fabbrica poi i commilitoni bestiali, impara a bere in alternanza birra e grappa e a ingollare le pietanze più pesanti, a difendersi, se necessario, anche con la violenza, fino a dimenticare del tutto la propria identità. Anche questa una forma di resistenza.

I quadri si succedono rapidi in questa “fiaba” che di romantico non ha più nulla, nonostante l’evocazione continua di “Biancaneve” che resta, fino alla fine, “la più bella del reame”, ossia l’incarnazione di un sogno di idilliaca serenità che Ella Gericke ha seppellito a vent’anni insieme al marito e che resta per lei pura utopia. Il “doppio” dei romantici è qui svuotato di ogni fascinazione psicoanalitica e si trasforma in feroce costrizione. Il monologo è dunque, a dispetto del sarcastico sottotitolo, un’anti-fiaba in cui, in una serie di schegge, si ripercorre, nella prospettiva di questa derelitta, un ventennio di storia tedesca, denunciandone le storture ed evidenziandone le deviazioni, ma senza sentimentalismi, senza pathos o collera, perché, alla soglia della fine, quel che resta è solo amara rassegnazione.


Gabriella Rovagnati



Max Gericke di Manfred Karge 
traduzione e messa in scena Walter Le Moli 
con Elisabetta Pozzi 
produzione
Fondazione Teatro Due (Parma)

dal 9 al 13 ottobre - Piccolo Teatro Studio 
via Rivoli 6 (M2 Lanza) - Milano 


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