Laboratorio
Daniele Dell’Agnola. La vostra scuola sembra un museo 
Incontro tra Gianluca Grossi e gli studenti di quarta media
26 Settembre 2009
 

«La vostra scuola sembra per me un museo. Sono meravigliato dall’architettura di questa scuola. Da noi nelle scuole entrano le pallottole». Sono le parole di Nabil, che abita nella striscia di Gaza e ha quarant’anni. È in Svizzera per quaranta giorni con suo fratello Hussam, il pompiere palestinese che ha perso una gamba durante un’operazione di soccorso e che ora ha potuto riprendere una vita più o meno normale, grazie ad una protesi. Hussam e Nabil sono accompagnati dal giornalista, reporter indipendente Gianluca Grossi, che Gaza la conosce bene (www.weastproductions.tv). I tre ospiti parlano ad un pubblico speciale: sono 51 ragazzi quindicenni di una scuola della Svizzera italiana. Nell’istituto scolastico un gruppo di sette insegnanti sta sviluppando un progetto che prevede dei doposcuola, degli incontri, delle riflessioni dedicati al rapporto tra Nord e Sud (delle Alpi e del Mediterraneo). Gli oggetti in discussione sono la guerra, i bambini di strada, l’alimentazione.

Nabil osserva gli adolescenti e dice loro che sono bellissimi e coraggiosi. Poi inizia a raccontare, bisognoso di testimoniare un suo vissuto terribile, un suo punto di vista. Le tracce di rabbia e dolore costituiscono i sentimenti dei popoli che vivono la guerra, penso. Nella guerra non si distingue il buono dal cattivo, ma si identificano le vittime, da una parte e dall’altra.

Hussam e Nabil «vengono dalla terra dell’impossibilità», spiega Grossi «e sono quasi miei amici fraterni. Vorrebbero una vita normale, ma la normalità, a Gaza, non esiste». Nabil chiede la parola: «Ho vissuto quarant’anni in prigione e quaranta giorni libero, in Svizzera». Un’allieva chiede al fratello, il pompiere Hussam, come si sente, ora che dovrà tornare a Gaza. «Lavorerò in ufficio e risponderò alle chiamate di emergenza, non sarò più sul campo per soccorrere i feriti. Ma non vedo l’ora di tornare laggiù, il 29 settembre».

Per due ore e mezza i ragazzi ascoltano, attenti e con grande rispetto, le narrazioni dei tre ospiti. Gianluca Grossi precisa: «Faccio questo mestiere perché desidero ascoltare le storie degli altri e ho bisogno di raccontare queste storie. Noi giornalisti, con questo tipo di lavoro, non possiamo cambiare il mondo. Ma possiamo raccontarne un pezzettino». Raccontare, per Gianluca Grossi, significa avere fiducia nelle persone che incontra e soprattutto, precisa, «io sono di fronte a persone che si fidano di me. Hussam e Nabil si fidano di me».

Anche il pubblico, formato da questi ragazzi che, penna e fogli, annotano, prendono appunti, ascoltano, sembra avere fiducia nel racconto di Gianluca, soprattutto quando spiega che in un TG di solito si racconta una «guerra ordinata, pronta per essere digerita dal pubblico delle otto di sera, quando di solito si fa cena. Ma la guerra non è ordinata, la guerra è caos, colpisce ovunque e in ogni momento».

Nel momento in cui il giornalista proietta un filmato inedito, tutti rimaniamo impressionati da una crudezza che non è data dalle immagini (Gianluca ha censurato il video appositamente per i ragazzi), ma dal fatto che quella è roba vera. È la verità della testimonianza, che colpisce, non certo il motivo ideologico, religioso, politico che sta a monte di queste catastrofi umane.

Alla fine dell’incontro una ragazza, che aveva smesso di prendere appunti a metà pomeriggio, si alza in piedi e regala i suoi fogli, la sua matita, a Hussam. Parte un empatico dono collettivo e i due palestinesi se ne tornano a casa con astucci, matite e fogli. Un gesto d’amore di una ragazzina, disinteressato e autentico.

Se quegli insegnanti avessero invitato i famigliari di un soldato americano ucciso a Kabul da un attentato, avremmo ottenuto un risultato simile: la stessa ragazzina avrebbe sentito il bisogno di “fare qualcosa”. 

Noi viviamo nella terra della possibilità e della libertà, d’accordo. E non sono diritti acquisiti. Sono tuttavia conquiste che si possono perdere adagio, senza accorgersene e anche senza l’uso delle armi. Per esempio, si può perdere la libertà e la “possibilità” negando il dialogo, il dibattito civile, il senso comune delle cose e degli intenti... E su questo, anche noi ticinesi, dovremmo riflettere.

 

Daniele Dell’Agnola


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