Diario di bordo
Maria G. Di Rienzo. Ci sono altre voci
22 Settembre 2009
 

«Il burqa viene ingannevolmente spacciato per atto di fede o precetto religioso. Gli islamisti che insistono per la sua persistenza nella sfera pubblica hanno in mente un unico obiettivo, e cioè esercitare controllo sulle vite delle donne e ridurre le loro possibilità di dare contributi positivi e significativi alla società in cui vivono. Non credo sia una questione di 'scelta': la decisione di indossare il burqa in un contesto repressivo non è una scelta. Una scelta è vera solo se è esercitata in presenza di alternative e se la donna ha davvero accesso a tali alternative.

Com'è che non vedo un singolo uomo musulmano indossare questa tenda della vergogna? Il burqa è il residuo di una cultura medievale che non ha posto nel XXI secolo, un tempo in cui la sensibilità moderna è giunta a riconoscere l'eguaglianza fra uomini e donne come inalienabile diritto di tutti».

Sohail Raza, presidente del Congresso Musulmano Canadese, 24 giugno 2009

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«Le ministre che Ahmadinejad ha nominato nel suo contestato governo non segneranno alcun avanzamento per le donne. Fatemeh Ajorlou, Ministra per la sicurezza sociale ed il welfare, e Marzieh Vahid Dastjerdi, Ministra per la salute, appartengono ad una frazione molto conservatrice del parlamento iraniano che sostiene inflessibilmente Ahmadinejad. Della terza, Fatemeh Keshavarz, Ministra per l'istruzione, è difficile predire il comportamento giacché si tratta di un volto relativamente nuovo: tuttavia ha servito come parlamentare al precedente dicastero per l'istruzione senza che si potesse notarla. Sia Dastjerdi sia Ajorlou hanno sostenuto il disegno di legge presentato da Ahmadinejad, convertito in legge nel 2008, per limitare il lavoro 'esterno' delle donne sposate a sei ore al giorno, affinché esse possano 'servire meglio' mariti e figli, il che è il loro 'dovere primario'. Sia Dastjerdi sia Ajorlou hanno esplicitamente difeso l'idea della segregazione di genere negli ospedali, nelle università, sui trasporti pubblici, nei parchi e negli altri spazi aperti.

Sia Dastjerdi sia Ajorlou hanno sostenuto la proposta di modifica presentata da Ahmadinejad al diritto di famiglia, proposta che cancellerebbe il requisito legale oggi esistente che prevede il consenso della prima moglie all'uomo che voglia sposarne una seconda. L'anno scorso le attiviste per i diritti umani delle donne hanno lavorato duro contro la proposta di modifica ed hanno ottenuto il piccolo ma significativo trionfo di non vederla ratificata dal parlamento.

Dastjerdi, che è una ginecologa, crede che le donne debbano essere curate solo in ospedali per femmine e da medici femmine: anche se la maggior parte del paese soffre della mancanza di dottori, maschi o femmine che siano, e nelle città più piccole o in campagna una donna può facilmente soffrire e morire di questa mancanza.

Ajorlou, parlamentare di Karai ad ovest della capitale, ex miliziana Basij, è stata un'accesa sostenitrice della limitazione dell'accesso all'università per le donne (che sono ancora il 64% del corpo studentesco): “Non è bello che le donne stiano entrando a piena potenza in vari campi scientifici mentre gli uomini vengono lasciati indietro”, ha dichiarato all'agenzia di stampa Ilna, aggiungendo che alle donne non dovrebbe essere permesso laurearsi in campi (non specificati) per i quali non hanno i “necessari requisiti fisici”. In un'intervista, Ajorlou ha anche spiegato che “il destino delle donne che non indossano appropriatamente l'hijab è la prostituzione”. Il che mostra abbastanza bene la considerazione che questa donna ha per le sue 'sorelle' iraniane che pensano di avere il diritto di scegliere il proprio abbigliamento.

Ahmadinjead ha nominato tre Ministre sapendo che nessuna di esse lo contrasterà in alcun modo. E compiendo questo gesto ha pensato di riparare la propria reputazione decisamente danneggiata dalle elezioni fraudolente e dalla brutalità con cui le sue forze di sicurezza hanno risposto alle proteste. Ma in Iran non ha ingannato nessuno».

Leila Mouri Sardar Abady (foto), giornalista iraniana, attivista per i diritti delle donne, 5 settembre 2009

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«Chi è la donna che ogni giorno torna al confine tra Arabia Saudita e Bahrain, solo per essere respinta? Sono io. E chi sono io? Nativa della città di Hufuf, dove crescono i migliori datteri del mondo, quarantasettenne madre divorziata di due adolescenti, impiegata. Non sono una persona pericolosa, perciò perché mi respingono? Perché mi rifiuto di mostrare ai funzionari un documento firmato dal mio 'tutore maschio' che mi permetta di viaggiare. Io sono in possesso del documento, ma trovo umiliante doverlo produrre solo perché sono una donna. Perciò ho deciso di tentare di uscire dal paese rompendo questa regola: ho chiesto ad altre donne saudite di farlo e molte, nelle scorse settimane, mi hanno ascoltata.

L'avere un 'guardiano' e' solo una parte del meccanismo che soggioga le donne in Arabia Saudita. Ad esempio, senza il permesso del suo tutore una donna non può guidare un'automobile: ovviamente non c'è nulla nel Corano al proposito, ma spostarci da sole allenterebbe il controllo che gli uomini hanno su di noi. Una donna saudita non può andare da nessuna parte se non indossa l'abaya, un orrendo mantello nero che deve coprire i vestiti normali. Potete immaginare quanto sia divertente quando ci sono 30-40 gradi all'ombra e vedete gli uomini sauditi vestiti di fresco bianco. Le donne non possono fare sport: e con un abaya addosso come sarebbe possibile? Una donna può ottenere un divorzio, ma solo attraverso una lunga e laboriosa procedura, mentre un uomo può divorziare semplicemente dicendo la sua intenzione tre volte. In questi giorni le autorità religiose stanno dibattendo se un uomo debba proprio dire questo di persona, o se basti un messaggio sul cellulare. Un giudice a Jiddah ha già approvato un divorzio del genere: il marito era in Iraq per partecipare alla guerra santa. E un uomo può legalmente sposare una bambina di sette od otto anni, e la poligamia, sino a quattro mogli, gli è concessa. Queste pratiche hanno rovinato innumerevoli vite, e ne hanno cancellate altrettante, ma naturalmente ci sono anche donne che non sostengono le mie cause, donne i cui ricchi mariti beneficiano dallo status quo o donne che non credono nel cambiamento. Io sono diversa. Non so perché. Forse perché mia madre mi permetteva di giocare a pallone con i miei amichetti maschi, e io sono cresciuta sentendomi uguale a loro. Forse perché ho un lavoro sicuro e non dipendo da nessuno. Forse perché credo che le donne siano persone, e non proprietà».

Wajeha Al-Huwaider, scrittrice ed attivista per i diritti umani, cofondatrice della Società per la difesa dei diritti delle donne in Arabia Saudita, 16 agosto 2009 (potete scriverle, in inglese, all'indirizzo e-mail: wajeha4@gmail.com)


traduzione e adattamenti a cura di Maria G. Di Rienzo

(da Notizie minime della nonviolenza in cammino, 22 settembre 2009)


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