Lo scaffale di Tellus
Bruna Spagnuolo: Ümit Yaşar Oğuzcan (un menestrello di Turchia)
10 Settembre 2009
 

Il poeta turco Ümit Yaþar Oðuzcan nacque nel 1926, a Tarsus, e girò in lungo e in largo per la Turchia, a causa del lavoro del padre, Lütfi, che, essendo dipendente statale, si spostava continuamente e costringeva il figlio a crearsi sempre nuovi legami e a tagliarli, come cordoni ombelicali dolenti. Ciò, forse, è alla base della capacità di Ümit di evocare, nei testi, abitacoli fuori-testo, da cui l’io intellettivo, quasi in scissioni-simbiosi, pare materializzare astrazioni oltre-corpo (da cui osservare le asperità degl’imprevisti e gl’imprevedibili sentieri dell’io fisico e di quello immateriale che vi abita dentro).

Gli studi di questo poeta dalla vena inesauribile si svolsero in varie sedi (Tarsus, Istambul, Konia, Eskiþehir). Completò, in Eskiþehir, il liceo commerciale ed entrò nel mondo bancario (Turkiye iþ bankasý). Anna Masala disse di Ümit Yaþar, quando egli era ancora in vita: «/…/ è nato da /…/ e subito ha cominciato a vivere la sua lunga gara con la morte». La vita di questo singolare figlio di Turchia, in effetti, si costellò (ancor prima del suo naturale tramonto dall’orizzonte terreno) di fughe verso la morte (balzi verso la notte e ritorni verso la luce o viceversa?), in senso metaforico e reale, corporale e spirituale.

Subì una frattura (grave), a tre anni/ sedette su un braciere, a quattro/ precipitò da una scala, a cinque/ rimase tramortito, sotto un pesante coperchio di baule, a sette/ subì interventi chirurgici –in epoche e in condizioni in cui morire o sopravvivere erano facce ‘normali’ della medaglia quotidiana (l’appendicectomia, a quattordici, l’asportazione di un rene, a diciannove, la tonsillectomia, a trenta)/ si salvò per miracolo da un tentativo di suicidio, in età matura, e patì la morte, per suicidio, di suo figlio Vedat. Sopravvisse a quell’ultimo-feroce attacco del destino quasi per assuefazione al dolore. Subì anche una serie incredibile di incidenti stradali, che non riuscirono a uccidere il suo corpo (ma che misero a segno boomerang insidiosi sulle corde vibranti/vibratili del suo spirito provato).

La sua vita, guardata a ritroso, appare come un ‘range’ sine qua non inciso a priori, a caratteri cubitali, colà dove si puote.

Ümit Yaþar Oðuzcan è la dimostrazione di come la ‘statura’ esteriore e quella interiore della gente siano due cose non ‘imparentate’ e spesso completamente discordanti (Ü. Y. O. aveva una statura fisica inversamente proporzionale a quella culturale: era piuttosto basso e insignificante/ aveva una cultura da gigante/ era depositario di un carisma che s’irradiava come una magia).

Sposò Özhan, figlia di Mehmet Zeki Oðzbash di Mersin, ed ebbe due figli, Vedat (1949), che divenne un brillante scultore e che si suicidò (1973), e Lütfi (1952), che entrò nel teatro dopo il conservatorio. Neppure il matrimonio smentì il clima burrascoso della vita di questo poeta tormentato: divorziò, ebbe infinite peripezie familiari e giunse persino ad una riconciliazione, con relative nuove nozze.

La separazione da Özhan ispirò a Ümit il libro Beni unutma e le Quattro Lettere a Özhan, che, a mio avviso, segnano un momento importante nella produzione letteraria di Oðuzcan e che sono come una porta aperta sul ‘prima’ e sul ‘dopo’. Il ‘dopo’, che include la parte finale della vita umana e poetica, è scrigno della produzione matura, quella dello sguardo sfatato e della ponderatezza che scende sulla passionalità come un balsamo velato di saggia nostalgia e di lirismo; è scrigno anche della ritrovata pace ‘globale’ e dell’unione con l’ultima donna della vita di questo cantore instancabile dall’animo tormentato, l’unione con Ulufer, colei che diverrà Ulufer Oðuzcan e che gli starà accanto fino alla fine.

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Nessuno sa quando-dove-come sia germogliato il bandolo dell’intricata matassa poetica di questo autore (ma a chi è dato sapere quali spore danzino nel vento del pensiero umano e in quale preciso momento ne artiglino il divenire cangiante con radici dall’imprevedibile portamento air-earth born?). Nessuno ha potuto-può-potrà dire con certezza una simile cosa di nessuno degli artisti passati-presenti-futuri (e neanche i diretti interessati, sia pure attraverso regressioni mentali di qualsivoglia entità megaciclica).

Dire quando germoglia il granello capace di riprodurre le foreste-parole della produzione di un qualsiasi autore è difficile; rintracciare, nella vita piena di eventi e di imprevedibili drammi di Ümit Yaþar Oðuzcan, i sortilegi germoglianti della sua produzione poetica mareale è impossibile.

È certo che le libere attività di editoria e di giornalismo del padre e l’amore della madre, Güzide, per la poesia lo influenzarono, ma non si può dire se queste furono le cause della sua vocazione poetica. Direi, se credessi nella metempsicosi, che è stato poeta nella sua vita vissuta nel novecento come è stato poeta in altre vite passate e come sarà poeta in altre vite future. Egli stesso, in un’intervista rilasciata ad Anna Masala, disse che, se, nel post mortem, potesse scegliere di rinascere, sceglierebbe di essere ancora e ancora Ümit Yaþar Oðuzcan.

La poesia di Ümit Yaþar, straordinariamente viva e intensa, è come una zummata sulle immagini più struggenti e significative di Istambul. È risaputo che questo poeta amasse Istambul (Istanbul) alla follia e che condividesse con la città, in parallelo, gioie, dolori, amori e odio. Istambul incarnava tutto ciò che egli amava; in quella città egli viveva e lavorava e, quando non era nel suo studio, in Sirkeci, era nella poesia vivente che lungo i bordi del Bosforo ronza senza fine (tra le case antiche ubriache di venti storici e di correnti marine/ nella frenesia dei gabbiani pazzi di facile pesca invernale/ nei velieri appollaiati sulle notti di luna/ nelle porcellane frantumate in onore dei cantanti-cantori come ieri virtuosi e inondati di petali di fiori/ nello sciamare della vita di Istanbul, fitto-complesso-imprevedibile-misterioso come il suo nevischio).

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La società venne a conoscenza dell’attività poetica di Ümit Yaþar tra il 1936 e il 1938, per merito di un giornale murale studentesco. Le sue prime poesie edite apparvero, nel 1942, sul giornale Kocatepe, su Güzel eskiþehir, su Sakarya e su Porsuk (rivista ufficiale della casa del popolo di Eskiþehir). Lavorò per la rivista Türke doðru, divenendone direttore. Diede la sua collaborazione a molti giornali, tra cui Kalem. I maggiori organi di stampa della Turchia, dal 1954 in poi, hanno richiesto la sua collaborazione (Varlik, Yediðun, Istanbul, Haynak, Büyük Doðru, Fikirler, Edebiyat Dünyasý, Hisar, Aile, Yelpaze, Güey, Akbaba, Papaðan, Yergi, Dergi, Yariþ ve yetiþtiricilik, Iþ dergisi, Hür Vatan, Hareket, Cumhuriet, Yeni Istanbul, Bob Bon, Hafta Sonu, Hürriyet, Kelebek). Nel 1961, fondò una sua casa editrice.

La sua produzione letteraria va collocata nella storia evolutiva delle lingue turciche, come tutta la letteratura turca contemporanea, e, per quanto diversa nella sua veste estetica e semantica, va vista come depositaria dell’eredità degli antichi cantori centro-asiatici e delle più recenti Divan Edebiyatý e Halk Edebiyatý. Non è avulsa neppure dall’influenza della letteratura europea, iniziata già all’epoca del Turchismo, nel lontano 1865, quando in Istambul si formava l’associazione dei Giovani Ottomani e Namýk Kemal e Ziya Paþa, che vi avevano aderito, erano costretti a fuggire a Parigi.

Ümit Yaþar è, per diritto di nascita, erede di quel Nazionalismo turco che si era opposto al Panislamismo divenendo Turchismo, tra il 1800 e il 1900, ma è altro da esso.

La sua produzione, pur collocandosi, per discendenza primaria, nella storia letteraria del suo paese, non si presta a gemellaggi con le varie mode letterarie. Ümit Yaþar canta il rifiuto delle mode borghesi e la vita di ogni giorno ed è, si può dire, un poeta dall’epigramma facile e dall’ironia apparentemente leggera (e, in realtà, caustica verso tutti i politici ricchi e voltafaccia). Canta anche la bellezza e le brutture e i sogni e le paure dell’umanità, inserendo nella dimensione semplice e spontanea della sua poesia senza artifici il sospiro universale del poeta dall’interiorità grande quanto la sua fama in terra di Turchia.

Qualcuno pensa che la parte migliore di questo poeta sia la lingua. Io credo che la trasparenza idiomatica di questo autore sia punto d’arrivo di un lungo cammino e che egli conoscesse la lingua tanto profondamente da asservirla alla poesia, senza mai tradirla, in un gioco di musicalità e di semplicità.

L’altalena continua tra la vita e la morte traspare dalle poesie di questo autore, come altalena tra il mondo dello spirito e quello del corpo/ come dimensione-altra di un’anima che non riesce più ad essere contenuta nella materia limitata-/limitante e che genera attorno a sé soltanto sentimenti estremi (nessun poeta ha mai avuto un numero tanto elevato di amici e di nemici contemporaneamente).

Ümit Yaþar, nel 1975, nove anni prima della sua morte, avvenuta nel 1984, in una delle poesie contenute nel libro intitolato Yalan bitti, scrisse: «/…/ per la prima volta sono morto il 6 Giugno del 1973 con mio figlio Vedat. Non so quando morirò per l’ultima volta». Quelle parole, che gridano in eterno lo sgomento senza limiti di un dolore trapassante, sono come un’epigrafe ferita/ attenta/ attonita campeggiante su tutte le letture dei versi di questo poeta (il cui cuore inquieto non ha mai smesso di essere affollato di umanità straripante, contagiosa e dilagante). È tenendole ben chiare in mente che trascrivo un florilegio (limitato/ limitante/ piccolissimo) di versi (‘antichi’) di Ümit Yaþar Oðuzcan.

*

Ecco un esempio in cui la poesia di Ümit Yaþar esce dai confini del mondo intimistico, da quelli della sua Istanbul e della sua Turchia e si universalizza abbastanza da condividere lo sbalordimento sconcertato con cui l’evento più tragico di tutti i tempi conosciuti (fino ad allora) imprime sugli orizzonti mondiali la firma dell’imprevisto e delle non esorcizzabili paure:


HIROSHIMA


Una nuvola s’è ingrandita

inizialmente dalla terra al cielo

L’ho vista io

l’ha vista Akahito

l’ha vista Yuhara

l’hanno vista tutti i viventi

Dico viventi ora

ma ci sono solo io

Loro sono morti


Le donne nelle risaie sono morte

I bambini al seno della madre sono morti

I fiori sono morti

Gli uccelli sono morti

La mia amata Sanuki è morta

Amavo Sanuki

Sanuki è morta

Sanuki è morta


Si è persa nel cielo la palla di fuoco

Il silenzio di morte dalla terra è piombato sulla città

Se ne sono andate le nuvole

Se ne sono andate le voci

È morto ridendo mio padre

Mia madre Chiyo-Ni stava piangendo


 

*

Ecco la poesia in cui Ü. Y. parla della morte del figlio (come in trance, uscendo dal suo corpo terrorizzato/ dal rifiuto di una verità traumatizzante/ dal dolore devastante/ dal turbinio di sensazioni-ricordi-grovigli di ‘se’-’ma’-’forse’ e sensi di colpa), come un cronista ‘esterno’ agghiacciato e quasi anestetizzato dalla realtà (che soltanto dentro la mente ha dimensioni catastrofiche di maremoti inarrestabili e ciclopici e che all’esterno non è che un fatto tanto tragico quanto piccolo e squallido racchiuso nello spazio inaccettabilmente ristretto di un pezzo di strada). Il grido dell’anima tace nei versi della poesia (e tanto di più trapassa l’immobilità del mondo che non sa e che si avvolge nell’abbraccio del sole indifferente):


GIUNGO 1973


Era un giorno luminoso d’estate

Il mondo era limpido e bello

Dalla torre di Galata cadde un uomo quel giorno

Affidò al vuoto in un istante

la primavera della sua vita

insieme a tutte le speranze

Si ridusse in brandelli

Dalla torre di Galata cadde un uomo

Era mio figlio quell’uomo.


 

*

Ecco la poesia che (oltre ad essere ‘targa’ di un momento cruciale della biografia di Ü. Y.) si fa ‘spartiacque’ (tra opere pre e post Lettera a Özhan) e ‘chiave’ di buona parte della produzione di questo poeta (che è, forse, il più munifico del mondo) e pietra miliare dalla quale in poi l’irruenza letteraria di Ü. Y cambia ‘flusso’/ ’stratificazione’/ ’raggio’/ ’portata’:


LETTERA A ÖZHAN


Più nessuno cuoce per noi il cibo,

nessuno prepara il tavolo per la cena.

Da quanti giorni porto la stessa camicia non so

Quanto sia triste la nostra situazione capirai.

Non ho voglia di alzarmi dal letto la mattina,

le ore si sono fermate nel momento in cui te ne sei andata.

Mai ho vissuto in così misero stato

da quando ho imparato a conoscermi.

Non ascolto più radio e cose del genere,

la tristezza avvolge la nostra casa ogni sera,

quale e quanta sia la solitudine non puoi capire,

se non avessi vergogna dei ragazzi, piangerei.


 

*

Ecco la poesia che porta il nome dell’amore oltre l’amore di Ü. Y. O. (che ha amato le donne del suo cuore dell’amore intenso e struggente che è amore per l’amore e che, al di sopra dello stesso amore, ha amato Istanbul). L’epicità dei messaggi d’amore di questo poeta dalla passionalità toccante (che usa le parole come carrier e le abbandona come vuoti involucri, uscendone al volo e atterrando su ogni pianeta-occhi-mente raggiungibile) ha infinite corde da cui trarre le più svariate meraviglie-malie. Ognuna delle destinatarie amanti/ amate, però, ha sempre e in ogni ora un’unica-grande rivale: Istanbul. Il poeta canta la città in lungo e in largo, nel fiume in piena uscito dalla sua penna instancabile e prolifica di menestrello, ma, in questo breve testo, pare volerla ‘scolpire’ per consegnarla ai posteri.


ISTANBUL


Nella casa una stanza, in quella stanza Istanbul

Nella stanza uno specchio, nello specchio Istanbul

L’uomo ha acceso la sigaretta, un fumo di Istanbul

La donna ha aperto la borsa, nella borsa Istanbul

Il bambino ha gettato una lenza nel mare, ho visto

Ha cominciato a tirarla, nella lenza Istanbul

Che strana cosa questa, che città è

Nella bottiglia Istanbul, sulla tavola Istanbul

Cammina se cammini, si ferma se ti fermi, sbalordimmo

Da un lato lei, da un lato io, in mezzo Istanbul

Uomo se proverai ad amare per una volta, ho capito

Ovunque andrai, là sarà Istanbul.


 


N. B.- Prego il lettore di non dimenticare che ogni traduzione spoglia inevitabilmente il testo dell’immediatezza di grafema-fonema (propria delle lingue originali e delle diversità glottologiche, filologiche, storiche, antropologiche/ geografiche che arricchiscono il mondo) e che nessun idioma potrà mai sostituire l’armonia visiva-uditiva (cristallina-scrosciante-ridente e chiacchierina) dell’idioma originale.

Ecco (per la percezione visiva e per il puro godimento intuitivo di chi non conosce la lingua turca) l’ultimo testo anche in versione originale:


Istanbul

Evin içinde bir oda, odada Ýstanbul
Odanýn içinde bir ayna, aynada Ýstanbul
Adam sigarasýný yaktý, bir Ýstanbul dumaný
Kadýn çantasýný açtý, çantada Ýstanbul
Çocuk bir olta atmýþtý denize, gördüm
Çekmeðe baþladý, oltada Ýstanbul
Bu ne biçim su, bu nasýl þehir
Þiþede Ýstanbul, masada Ýstanbul
Yürüsek yürüyor, dursak duruyor, þaþýrdýk
Bir yanda o, bir yanda ben, ortada Ýstanbul
Ýnsan bir kere sevmeye görsün, anladým
Nereye gidersen git, orada Ýstanbul.

 

Bruna Spagnuolo


TELLUSfolio - Supplemento telematico quotidiano di Tellus
Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - R.O.C. N. 7205 I. 5510 - ISSN 1124-1276