Diario di bordo
Rosangela Pesenti. Stare dentro o chiamarsi fuori: perché ho scelto di candidarmi nel PRC
12 Maggio 2009
 

Non sono iscritta a nessun partito da vent’anni e non ho avuto mai nessuna responsabilità amministrativa in nessuna istituzione. Ho vissuto attivamente la politica nel movimento delle donne, nel femminismo, in quel tessuto orizzontale che ha saputo cambiare la società italiana non solo conquistando leggi inclusive dei diritti civili, ma soprattutto nell’agire quotidiano, nelle relazioni più intime, tra donne e uomini, tra generazioni, tra popolazioni, allargando le possibilità di immaginare il futuro, affermando la libertà di esistere per ognuna e ognuno secondo i propri talenti e inclinazioni.

Un tessuto che non ha costruito leaders, ma molte autorevolezze che durano nella memoria e vengono ancora trasmesse nonostante l’oscuramento informativo e l’oscurantismo dei poteri costituiti.

Sono già stata candidata nel ’94 dall’ancora unitario PDS e l’anno scorso dall’Arcobaleno. Guardo la sinistra agire come i polli di Renzo, di manzoniana memoria, mentre nel mondo spadroneggiano i Bravi e penso che da qualsiasi posizione si possa trovare un’alleanza pulita, tranne che dalla parte di Don Abbondio. Quello che ho visto muoversi sulla cosiddetta scena politica, sempre più scena nel senso della costruzione di fiction mediatica, non mi corrisponde nelle forme, nell’agire, nei progetti, nel modo di rappresentarsi e di rappresentare.

 

Potrei dire che non ho bisogno della politica, per lavorare, per vivere, per continuare ad essere e fare, pensare e agire. Potrei facilmente chiamarmi fuori.

Perché allora accetto di essere dentro? Perché accetto di mettermi in un ingranaggio che so di non poter dirigere né tanto meno influenzare in questo momento, di “metterci la faccia” in una situazione di frammentazione così profonda e spesso intimamente dolorosa, di malumori e piccinerie così diffusi, in un impasto di paure e cinismo, fedeltà mortificate e calcolo, che rischiano di rendere opaco qualsiasi volto e sospetta qualsiasi proposta?

Perché sono una cittadina appena inclusa. Quando sono nata le donne in Italia avevano conquistato il diritto di voto da pochi anni, nella civile Europa da poco più tempo e non in tutti i Paesi, e molte leggi erano ancora espressione del potere patriarcale che vuole le donne subalterne nella divisione del lavoro, assoggettate nella sessualità, limitate nell’accesso politico, cancellate nella trasmissione della cultura, derubate nell’elaborazione del pensiero e complici nella conservazione della loro stessa servitù attraverso un abile dosaggio di concessione di privilegi, ricatti affettivi, manipolazione dell’immaginario, minacce, violenze, assassinio.

La libertà di pensare e pensarci che abbiamo conquistato, più generazioni di donne e un pezzetto per volta, viene ancora continuamente aggredita. Veniamo aggredite singolarmente, nei modi feroci o subdoli che mirano a rompere, nell’immaginario, vicinanze e solidarietà, a esporre le differenze individuali censurando sempre le specificità politiche.

Nel mondo la maggior parte delle donne non ha diritti politici, libertà civili, opportunità e spesso nemmeno possibilità di sopravvivenza. L’intreccio spaventoso di storie locali, poteri coloniali e monopoli economici chiede la nostra azione politica, non possiamo lavarci la coscienza con le briciole di un volontarismo caritativo che non rappezza nemmeno le toppe.

Abbiamo di volta in volta costituito il movimento delle donne intorno a progetti concreti, cercando il terreno di una mediazione che non potesse mai diventare prevaricazione, inventando e allargando quel terreno democratico che non può esistere se non vive in luoghi agibili da tutte e tutti.

 

Misurarsi con la concretezza significa imparare la democrazia nel corpo a corpo delle storie diverse, nella fatica di allargare le opportunità sul terreno istituzionale, confrontando desideri e speranze con la durezza dell’esistente. Mi sento forte di questa esperienza e mi fido della mia storia, per questo ho accettato la proposta venuta dal Forum delle donne di Rifondazione.

Conosco il crescente maschilismo, la multiforme vendetta del patriarcato, che nessun uomo riesce ancora a dichiarare nemico dell’umano multiforme esistere e so che queste donne hanno dovuto predisporre una lotta, pacifica e democratica, ma lotta, per proporre e “far passare” il mio nome e quello di altre.

Ho imparato, leggendo e rileggendo le parole di Rosa Luxemburg, che ci sono momenti in cui bisogna mettere da parte la complessità delle proprie idee, l’orgoglio della propria limpidezza e scegliere da che parte stare, anche se il luogo in cui decidiamo di stare è inospitale e le persone, prevalentemente gli uomini, farebbero magari volentieri a meno della nostra presenza.

Non mi chiamo fuori dalla politica, anche se vedo solo cose che mi sembrano sbagliate o sospette, perché continuo a considerare il diritto di voto, allargato a quante più istituzioni possibili, una strada ineludibile per la democrazia.

 

Non credo si possa ricostituire una sinistra monoidentitaria, su simboli significativi per la memoria di un pezzo del mondo del lavoro oggi così profondamente cambiato: è una storia da cui abbiamo qualcosa da imparare solo se possiamo leggerla dentro il muoversi di altri soggetti fondamentali e primo fra tutti il movimento femminista, solo se possiamo rileggerla negli errori e connivenze del passato, così come nelle grandi conquiste di civiltà in tutta la storia del pensiero socialista e pacifista.

Sento la necessità di mettermi contro il capitalismo, la logica perversa del mercato e del profitto che alimenta povertà e guerre, perché credo che un altro mondo sia possibile e sono certa che già vive nei semi di pensieri e vite che ci sono sconosciuti e non solo negli straordinari laboratori politici di quell’altro mondo che noi europei abbiamo perseguitato, colonizzato, disprezzato, ma anche qui, in mezzo al nostro devastante sviluppo, tra le pieghe del nostro infelice benessere.

Penso che la frammentazione dei ceti dirigenti, più o meno colti, più o meno fascinosi, è la rappresentazione della fine di una forma politica e non saranno le logiche della rincorsa ai posti o le parole politiche più o meno azzeccate, volte a catturate il voto smarrito della sinistra, a fermarlo.

 

Non penso che la mia presenza possa modificare processi in atto, incardinati in logiche che mi sono estranee, ma resto convinta che la politica, al fondo, non può mai prescindere dalle piccole scelte di ognuno e per quanto mi riguarda faccio quello che posso.

Le donne sembrano talvolta più sprovvedute perché si muovono con poca dimestichezza nei meccanismi istituzionali, sbagliano valutazioni per ingenuità, buona fede, o convinte ad utilizzare le tradizionali strategie di adattamento, mimetizzazione, piccolo cabotaggio che hanno rappresentato possibilità di sopravvivenza e inevitabile complicità nella lunga storia dei generi.

Sembrano più disinvolte le donne della destra, ma utilizzano l’esito delle lotte femministe, mai condivise, per ottenere posti conformandosi ai modelli classisti e spesso senza sottrarsi alle tradizionali subalternità.

Non importa, da questo non si può prescindere se è la dimensione del reale, da questo ci si può distinguere se la nostra vita testimonia di noi. Non si tratta di interrogarsi su quanto siano credibili i partiti, ma di pretendere che lo siano i candidati, come lo sono moltissime donne e uomini nella loro vita di tutti i giorni.

Vivo queste elezioni come possibilità etica e gesto responsabile da parte di una donna più che adulta nei confronti delle tante donne incontrate, degli uomini che si sono messi in cammino per un’altra storia, delle giovani generazioni di ragazze e ragazzi che mi sono cresciute accanto; non porto altro che la mia goccia d’acqua perché troppi incendi sono stati appiccati in Europa e dall’Europa e oggi siamo più che mai a rischio di aridità.

 

Rosangela Pesenti


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