Lisistrata
Sul terremoto
07 Aprile 2009
 

Se il terremoto è imprevedibile, come è ad oggi tra gli scienziati, allora bisogna sempre prevederlo. Mi spiego: di fronte a un evento che si sa destinato a succedere una volta o l'altra nelle zone ad elevato rischio sismico, allora bisogna attivare una formazione generale di base, un addestramento diffuso e introiettato, che metta la popolazione nella condizione migliore possibile per resistere all'evento.

Tutto ciò si fa a cominciare da esercizi quotidiani nelle scuole, fino a che diventino spontanei, quasi riflessi condizionati e quindi scattino immediatamente ogni volta: nulla di peggio vi è -nelle sciagure- del panico che ti blocca. Inoltre cognizioni sulla condizione del terreno, capacità e addestramento a leggere i primi indizi, come un tempo era noto fare per semplice esperienza e memoria trasmessa.

Predisporre piccoli magazzini con riserve (alimentari coperte medicinali e mezzi sanitari di primo soccorso ecc.) stanziati in molti luoghi del territorio. Gruppi di anziani e anziane potranno -in periodi di vita tranquilla- fare i magazzinieri e tenere tutelate e rinnovate le scorte. Si può, incominciando da un periodo eccezionale, iniziare la formazione di magazzini popolari di riserva e di prima necessità.

Analogamente bisognerebbe fare con tende, ospedali e cucine da campo, stanziate e tenute pronte in molti luoghi: si possono anche usare per altre necessità o desideri, per sagre popolari, feste, incontri, possono essere affittate ad associazioni che vogliano fare teatro all'aperto o concerti o esercitazioni o ginnastica o ballo o danza o quel che ci pare. Risorse distribuite sul territorio (come piazze del popolo?) e tenute pronte in molti luoghi.

In tutte le aree a grande rischio queste riserve e risorse di base debbono esserci, essere note alla popolazione e tutti e tutte devono avere imparato a usarle a montarle a predisporle, sia perché imparare qualcosa serve sempre, sia e soprattutto perché dà sicurezza e coraggio alla popolazione colpita. Nonché a ciascuno che sa così dove mettere le mani e agire, aiutarsi e aiutare nel momento giusto della necessità, non intasando le strade con colonne di mezzi generosissimi ma che non sanno nemmeno dove andare.

 

Poiché -come dicevamo- una delle prime necessità è sottrarre la popolazione al panico alla passività e alla fuga, tutto ciò che è stato tratteggiato fin qui, serve molto: ma soprattutto serve per capire che cinquantamila sfollati e più significano che nulla di tutto ciò fu lì mai fatto e che perciò si arriva presto al “si salvi chi può!”. Cinquantamila che sfollano di propria iniziativa singola significa una popolazione che non sa più né maneggiare né governare il suo territorio (come oggi non sappiamo quasi tutti): ma le popolazioni di montagna non sbagliavano a fare case dove venivano valanghe e quelle rivierasche dove i fiumi rompevano gli argini ecc. ecc. Adesso ciascuno crede di potersi accampare dove capita, dove il terreno costa meno, dove la costruzione cresce più alla svelta.

Se Berlusconi a questo punto insiste col suo delittuoso piano casa, indurrà a costruire allegramente un piano sopra ogni piccola casa inadatta, destinata a non reggere nemmeno il primo grado della scala Mercalli.

 

Molti ponti arditissimi costruiti su burroni profondi si chiamano “del Diavolo”, ma segnalano solo la straordinaria bravura di chi li costruì sì con mezzi arretrati, ma ben conoscendo dove poggiare le teste di ponte e come caricare le arcate. Siamo certi che le Tav e i ponti sugli stretti siano anche loro almeno “del Diavolo”? Ne dubito perché avvengono nel momento del “trionfo e decadenza” dell'economia capitalistica, incapace di prendere in considerazione progetti complessi e invece abile a tener conto solo del profitto bruto (quello che per l'appunto ha generato la crisi di sovrapproduzione, la finanza tossica, e la pretesa irragionevole di voler prolungare orario e tempo di lavoro industriale nella fase in cui il lavoro industriale è destinato ad essere sostituito da tecnologie): come è ovvio persino capitalisticamente sarebbe più utile: “lavorare meno, lavorare tutti” (e “tutte”: ma questo non potrebbero dirlo: questo è già anticapitalistico).

 

Comunque persino in casi catastrofici, quando sia necessario un forte costante intervento esterno, la popolazione locale, invece di vagare come anime perse può raccogliere assemblare ordinare i residui, gli avanzi, come legna, acqua, verdura, pasta, pentole, coperte, insomma ciò che si trova e si può riutilizzare. Poi arriverà il meglio: ma prima, ma subito in ogni modo bisogna che -già in loco- chi è in grado di muoversi, coordinare sforzi, sapere come si fa a fare, e che cosa e come si deve fare, si incominci a muovere. Non vi è modo più avvilente e passivizzante che stare a vagare in attesa di altri interventi o soccorsi.

 

Sui terremoti la memoria dell'umanità è lunga e tenace: tutti e tutte fin da bambini sapevamo come si deve fare, a scuola ci facevano esercitare, come si defluisce, dove ci si ripara, magari sotto un arco, vicino a un muro maestro, mai buttarsi per le scale, magari mettersi sotto un tavolo, persino una sedia, che protegge la testa e fa un cubo d'aria, se cade qualcosa intorno, e respiri, una bottiglia o una borraccia d'acqua, mai camminare sotto i cornicioni, moltissime avvertenze.

Soprattutto poi costruire case scuole ospedali in modo che resistano alle scosse, fare ponti viadotti ecc. che non crollino: se c'è un paese esperto di costruzioni antisismiche dovrebbe essere il nostro: ma semmai andiamo a imparare in Giappone o in California.

Invece scuole e ospedali che vanno in rovina, case nuove che crollano, i centri storici lasciati andare a ramengo e anche opere mastodontiche, piani in più e via così.

La tutela del territorio è uno dei doveri civici di ogni cittadino e cittadina, che si abitui a chiedere garanzie, a controllare esecuzioni e collaudi, e il territorio che venga adattato a chiunque ci viva uomo donna vecchia giovane atleta o disabile.

 

Ricordiamo i friulani che raccolsero a uno a uno i sassi dei loro centri storici diroccati e li ordinarono e ricostruirono nei loro bellissimi sperduti paesi.

Ricordiamo i Vietnamiti che sotto le bombe organizzarono la vita civile con tale abilità politica che lasciarono ammirato il mondo: le gerarchie sociali nella stretta tragica della guerra furono ribaltate e la cuoca divenne la più importante carica politica riconosciuta nel villaggio. E le maestre le più affidabili cui lasciare in mano i piccoli, sempre, mentre le madri erano in campagna a lavorare, e i padri in guerra.

 

In altri termini anche per uscire dal terremoto ci vuole una capacità politica alternativa, non basta la pur generosa solidarietà e i soccorsi: ci vuole una azione sociale diretta e organizzata come un inizio di costruzione di nuova società, sotto le macerie della vecchia: non è solo una metafora.

 

Lidia Menapace


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