Arte e dintorni
Marco Cipollini: Andrea Vanni senese
Andrea Vanni:  Santa Caterina
Andrea Vanni: Santa Caterina 
30 Gennaio 2009
 

Siena è una dimensione dello spirito, prima ancora che un fatato guscio di marmo pietra mattoni. Dietro la nervosa raffinatezza trecentesca ha una terribilità che solum è sua, riaffiorante non appena con l’unghia si scalfisca la patina mercuriale del turismo. Siena rimane, ossessivamente, la città della Vergine, ovvero di santa Caterina Benincasa (1347-1380), che della Madonna fu l’avatara.Ventitreesima di ventiquattro figli, vissuta 33 anni (cifra mistica), questa donna analfabeta ha lasciato moltissimi scritti dettati, di cui dopo una due pagine non si riesce a sostenere la viscerale spiritualità, disturbante. Al contrario di Maryâm di Nazareth, per quanto ne sappiamo vissuta quasi sempre nel suo tabernacolo domestico, Caterina fu sempre in viaggio, impegnata per la pace in un’età dilaniata dalle lotte, e per il ritorno del Papa da Avignone, e per l’unità italiana, con una dedizione quale nessuna femminista odierna potrebbe ardire il confronto. Eppure era una mistica squarciata dall’Aldilà, ma non si recluse in un romitorio o in un monastero, e cristicamente camminò incessante per le vie polverose e fangose d’Italia e di Provenza. Fece cose folli. Si mise in grembo la testa di un decollato carezzandola come se fosse di Gesù (lo era!). Oggi, in una frigida temperie razionale, irrazionalmente riduzionistica, sarebbe affidata a degli psichiatri… Che, poveracci, dopo mezz’ora della sua presenza, finirebbero in ginocchio, affidati ad altri psichiatri. Come i veri santi Caterina in vita fu benedetta e maledetta. Una pinzochera umile e coltissima, amica di letterati, pittori, potenti. Li ipnotizzò. Alla sua morte rimasero tutti sbalorditi, dichiarandosi orfani della loro mamma celeste, fisicamente amputati di lei.

  

   Siena. L’enorme blocco di mattoni di San Domenico. Prima di entrarvi è concessa una delle vedute più miracolose di cosa poté essere una città umana. Poi, ogni volta che ne varco la soglia, i piedi mi portano irresistibilmente alla Cappella delle Volte. Là, sulla parete di fondo, sta rannicchiato un piccolo affresco, smangiucchiato dalla polvere del tempo, e che da lontano sembra poco più che una chiazza di tre quattro colori sbiaditi. Ma avvicìnati e fissalo. Io ne tremo. In una monofora conclusa da lobi, ecco l’unico ritratto di Caterina in vita (circa 1375). Ritratto spirituale, s’intende: ma in Caterina, così carnalmente spirituale, fra aspetto e interiorità non c’era differenza. Lo dipinse Andrea Vanni, che di lei fu devoto e amico, un privilegio tale da giustificare un’intera esistenza. Come Caterina, fu attivissimo: oltre che pittore, ambasciatore di Siena a Napoli, Firenze, Avignone. Leggo in un dizionario d’arte: “Andrea Vanni (1332-1414). Come artista fu condizionato dall’imitazione superficiale di moduli stilistici e iconografici di Simone Martini e della tradizione senese in genere” ecc. Le solite miserie accademiche. O semplicemente cecità morale. L’affresco di San Domenico nella sua semplicità mistica è uno dei vertici della civiltà occidentale. Un prodigio ostentato e recondito: è lì e nessuno lo nota, come il cielo del resto. Visto con gli occhiali evoluzionistici dello storico d’arte, “non è innovativo”: peccato mortale! E chi se ne frega. Chi pennellò quelle due braccia d’intonaco fresco era saturo di visione, fradicio di grazia creativa.

  

   La santa bianchezza del velo e del soggolo della santa, coperta col mantello scuro del terz’ordine di san Domenico, scende dall’alto come un luminoso rivolo, che per il polso ugualmente bianco scivola alla pallida mano, simile a un morbido uncino che gocciola Grazia alle labbra socchiuse della devota, le cui braccia sono incrociate sul petto, reclusa in un’estasi ineffabile. Chi fu questa committente? Forse non si saprà mai; ma nella sua veste porporina e col velo abraso, disperatamente verdastro, ci ha lasciato un ritratto immortale della sua anima anonima. E guardate lo sguardo di entrambe, la consonanza chiastica delle iridi, che s’incrunano in un connubio di puri spiriti. Gli esperti vi diranno che il taglio lungo degli occhi è tipico dell’epoca – uno per tutti, Simone Martini – per accennare la rotondità del capo, un po’ come il “sorriso arcaico” dei Greci. Ma quelle palpebre socchiuse, della santa e della devota, sono di occhi assorti aldilà del mondo apparente, sguardi imparadisati. In contraltare alla colata del velo bianco discendente sta, ascendente, il rigido e squamato stelo del giglio, con quattro simmetrici fiori aperti e tre in boccio (sette come i lobi della monofora). È l’unico elemento “sonoro” della rappresentazione, come un inno ritmico ed esile, una laude che melodica e obliqua tende all’Alto in ringraziamento della Grazia concessa. E l’acme della santità: i due minutissimi punti rossi delle stigmate, che sigillano quelle mani di una delicatezza suprema. E mentre quella destra della devota, dolcissima, è di carne ancora viva, la sinistra della santa è ormai transumanata, conversa in una reductio ad unum di teologale assolutezza. L’arte delle caverne con un po’ di sforzo ci riesce ancora di condividerla, testimonia un’esperienza di terrestrità. Questa è ormai remotissima da noi, è arte aliena. Signum di Gloria. Puro enigma. Può solo sopraffarci, come gli scimmioni impazziti di fronte al monòlito nero.

  

   Ancora una volta ne esco stordito, tra la folla dei turisti. Negli occhi l’émpito della luce severa di Siena. E la veduta, che ti stacca il respiro, dell’aguzza vertigine del Duomo, erto sopra i tetti rosicci assoprellati: una galea pronta a salpare nei cieli che più non ci appartengono.

 

 

                                              Marco Cipollini   www.webalice.it

 


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