Ritratti
Simone Strozzi: dalla pallacanestro alla missione
04 Marzo 2006
 

Aveva tutto. Giovinezza, prestigio sociale, un’avviatissima carriera dirigenziale, con cospicui guadagni, in un’azienda leader a livello europeo nella distribuzione del gas propano liquido. Primeggiava persino in quello che da hobby e passione si era trasformato in un semilavoro (ma ottimamente retribuito) e in un assiduo impegno: il basket, sport per il quale arbitrava in serie A.

Simone Strozzi, parmense d’origine, dopo la partita n. 53 da lui diretta nella massima serie, Varese-Napoli, ha definitivamente riposto il fischietto nel cassetto dei ricordi – lui che era stato il più giovane arbitro di serie A nella storia della pallacanestro italiana – così come ha abbandonato il suo incarico, con relative responsabilità, gratificazioni ed emolumenti, di manager. A 28 anni Simone ha fatto il suo ingresso nella Casa Saveriana di Desio. Vocazione. Una scelta di vita. Il desiderio di andare in missione, coi Saveriani, nel mondo, accanto ai poveri, per provare a mutare in positivo le sorti delle genti, per dare e darsi, cristianamente, a chi soffre.

«Mi chiedevo perché io avevo tutto e troppi, sul pianeta, niente» dice Simone aprendo il suo cuore. «Perché? Mi arrovellavo con dubbi e domande. Ho rimandato per un paio d’anni in maniera tale da consentirmi di guadagnare quei soldi che sarebbero serviti ad acquistare una casa a mia madre, che aveva ricevuto un avviso di sfratto (mio padre intanto era morto), e a garantirle, con un piccolo gruzzolo, la sicurezza futura. Poi ho lasciato tutto».

Simone è al secondo anno degli studi teologici previsti nel suo percorso verso l’ordinazione sacerdotale e la destinazione finale, che potrebbe essere, indifferentemente, in America Latina, Estremo Oriente oppure Africa. Dopo il primo biennio, andrà ad Ancona per dedicarsi all’apprendimento dei lavori manuali e artigianali, compresi quelli della terra – fatica e meditazione – quindi altri quattro anni di teologia. Poi la partenza, lontano. Forse in uno sperduto villaggio o bidonville, probabilmente fra diseredati e disperati della Terra, a portare la parola evangelica d’amore e giustizia.

Si lascia andare e piange dolcemente quando parla dell’amata pallacanestro, ma afferma di sentirsi un uomo sereno, con il compimento della sua scelta. Ha scritto in una lettera per riassumere il suo destino: «Io sto bene, amo la giustizia al punto che ho sempre sognato un mondo diverso. Per questo a 18 anni volevo cambiare tutto; a 30 anni Dio Padre sta rivoluzionando la mia vita. La differenza non è tanto l’obiettivo, visto che cambiando, nel piccolo, anche una sola persona cambia il mondo, ma soprattutto è il soggetto... Il pensiero di Dio è diverso dal nostro e parte dai poveri, dagli abbandonati, da chi non conta. Sono oggi un po’ più libero (sottolineato, nda) perché mi sento la rivoluzione dentro e questo è impagabile. La parola di Dio mi scava nelle viscere e mette a nudo tutto, facendo uscire la verità. Ecco, è un cammino di verità. Missione è essere alla frontiera, dove vive chi è schiacciato dalla vita. Con la stessa fame e sete di giustizia camminiamo avanti, con coraggio per il presente e soprattutto per il futuro».

Che altro aggiungere a queste toccanti parole? Solo il senso di un’ammirazione sconfinata per chi la saputo lasciare ogni lusinga e bene materiale per abbracciare – i piedi saldamente al suolo, ma il cuore e la mente che volano altissimi – una nuova vita, nel nome di Dio e dell’uomo. Per l’uomo.


Alberto Figliolia



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