Diario di bordo
Marco Zacchera. Obama visto da destra (dal Texas)
08 Novembre 2008
 

Cari amici del PUNTO,

scrivo questo numero de IL PUNTO da Houston, in Texas, e anche per questo lo dedico principalmente a qualche riflessione dopo le recenti elezioni americane.

Per leggerlo in maniera integrale entrate sul mio sito www.marcozacchera.it.

Qui si seguito una versione ridotta dell'articolo (...).

 

 

In diretta dagli Usa

 

Alcune riflessioni direttamente dagli USA dove sono arrivato poche ore dopo la vittoria di Obama. Note raccolte a Houston, in Texas, dove in questi giorni rappresento il presidente della Camera dei Deputati on.le Gianfranco Fini ad un importante convegno sulla presenza e l'attività dei ricercatori italiani negli USA. Un convegno organizzato dal Comites della circoscrizione consolare di Houston (che comprende gli stati dell'Arkansas, Louisiana, Oklahoma e Texas) presieduto da Vincenzo Arcobelli.

Il Texas è economicamente il secondo più importante tra gli Stati americani, è grande due volte e mezzo l'Italia e tra i suoi 23 milioni di abitanti la presenza italiana è numericamente limitata (circa 5.000 residenti) ma molto qualificata e sottolineata da una forte presenza dell'ENI in campo petrolifero e dall'Alenia in campo aerospaziale. È stata per me una lieta sorpresa, visitando il centro di controllo della NASA, scoprire ad esempio che l'Italia è una delle principali nazioni partner nella costruzione delle navicelle e stazioni spaziali: da noi non lo sa quasi nessuno, eppure buona parte delle strutture che orbitano intorno alla terra sono realizzate a Torino.

Qui in Texas (patria dei Bush) martedì scorso hanno comunque vinto ancora una volta i repubblicani di McCain, ma d'altronde da sempre tutta l'area centrale degli USA è solidamente repubblicana. Sono questi Stati tradizionalmente conservatori, anche se i voti democratici sono questa volta aumentati in maniera considerevole, così come gli elettori che hanno partecipato al voto e per tempo si sono iscritti nelle liste elettorali. Negli USA, infatti, la partecipazione al voto non è obbligatoria ed è soggetta alla “iscrizione” volta per volta di tutti gli elettori che ogni quattro anni, nel primo martedì di novembre, votano non solo per il Presidente ma anche per una parte dei parlamentari e per una infinità di referendum locali sugli argomenti più disparati. Un modo genuino di esprimere una democrazia diretta che porta non solo a scegliere dove costruire un nuovo edificio pubblico ma anche a nomine popolari di giudici, sceriffi, direttori di prigioni, consiglieri municipali e persino il capo cittadino dei pompieri.

L'aspetto che più colpisce è comunque il comune e forte sentimento nazionale: Obama ha vinto e dal 20 gennaio sarà “Il Presidente” di tutti gli americani identificando da quel momento l'unità e lo spirito della nazione ben al di là delle simpatie elettorali. Ecco perché lo sconfitto McCain, appena noti i risultati, non solo gli ha espresso le felicitazioni ufficiali ma in un discorso molto profondo, nobile e toccante si è messo subito a disposizione dell'avversario con parole ed azioni sconosciute alla nostra democrazia ed alle polemiche che puntualmente seguono in Italia ad ogni elezione. È un altro e ben più alto senso di appartenenza di ogni americano per sentirsi cittadino di una nazione che come leader del mondo si trova ad affrontare problemi planetari. Crisi e difficoltà che spesso impongono risposte obbligate ed è per questo che non credo cambierà molto la linea di Obama in politica internazionale rispetto a George W. Bush. Non dobbiamo leggere in chiave italiana il voto americano: pensare, cioè, che poiché i Democratici si chiamano così abbiano allora molti punti in comune con il PD nostrano. Questo è solo voler correre dietro all'onda di moda per ostentare in patria qualche pennacchio, ma soprattutto dare al voto americano un commento molto superficiale e casareccio, mentre ogni azione di Obama si inserirà invece prima di tutto in un contesto nazionale dove (ed è questo che si teme in Texas) saranno probabilmente aumentate le tasse federali per finanziare alcune riforme sociali come il servizio sanitario nazionale che sono state tra i punti sostanziali della piattaforma elettorale del candidato democratico.

L'impressione è che sia stata la crisi economica a diventare la pietra tombale delle speranze repubblicane visto che l'opinione pubblica ha imputato a Bush la mancanza di sorveglianza e una sufficiente determinazione contro i colossi delle finanza. Se MacCain aveva tenuto nei sondaggi fino all'esplosione della crisi finanziaria poi e' stato per lui impossibile separarsi dalla ingombrante eredità politica del suo predecessore.

Ma Obama ha vinto soprattutto raccogliendo intorno a sé gli elettori della “nuova” America, ovvero quelle grandi minoranze etniche che ormai sono maggioranza. È stata così non solo la vittoria degli ispanici e degli elettori di colore, ma la crescente importanza della costa occidentale rispetto al “vecchio” nord est americano del New England, tradizionale portatore di ricordi europei e di voti democratici che però contano sempre di meno nel contesto nazionale. Nuovi voti e nuovi volti, soprattutto quelli di una generazione più giovane che si è stretta intorno ad Obama nella speranza di un cambiamento profondo della società americana che il senatore nero ha promesso in mille incontri negli ultimi mesi.

La critica repubblicana al nuovo presidente è il timore che egli non sappia dare concretezza alla sua indubbia capacità di trascinare le folle, ma bisognerà ovviamente vedere alla prova il nuovo e giovane Presidente prima di giudicarlo.

Restano comunque i punti fermi di un orgoglio tutto americano che si esalta nel compiacimento di dimostrare a se stessi e al mondo che negli USA tutto è possibile, compreso vedere un presidente nero alla Casa Bianca.

È insomma la conferma del sogno americano di una società dove chi ha idee, forza, volontà può vincere in politica, nella vita come nell'economia, ormai senza più alcun pregiudizio razziale.

Ma Obama non farà pazzie, non si lancerà in percorsi molto dissimili dai suoi predecessori e sarà così interessante vedere di qui a qualche mese i giudizi della sinistra italiana che oggi compatta lo esalta come un nuovo messia. Obama credo si dimostrerà molto più conservatore di quanto si pensi, con molte chiusure piuttosto che aperture internazionali ed una rinnovata presenza militare in alcuni settori chiave (come in Afghanistan) dove la situazione è sempre più difficile.

Conteranno molto i nomi dei consiglieri di cui si circonderà e l'andamento economico che oggi spaventa buona parte degli americani anche se, paragonati all'Italia, gli USA dimostrano un costante incremento del PIL, molto di più di tutta l'Europa occidentale.

Ma in ogni congiuntura economica e politica quello che conta di più è la volontà di venirne fuori, la “carica” che ciascuno può sentire dentro di sé per uscire dalla crisi e proprio da qui è venuto il successo di Obama che è stato capace di far presa tra milioni di elettori americani convinti non tanto di che cosa si debba fare (perché nel dettaglio ancora non si sa), ma intanto che sia il dream (il sogno) quello che conta.

Auguri, presidente Obama, di essere in grado di dare concretezza a questo sogno, non solo per il bene degli Stati Uniti ma per quello di tutto il mondo.

 

Marco Zacchera

(da Il Punto esteri, 8 novembre 2008)


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