Diario di bordo
Angiolo Bandinelli. Perché andrò a Chianciano
Angiolo Bandinelli
Angiolo Bandinelli 
28 Ottobre 2008
 

Da dietro le spalle di Mihai sbircio il bozzetto - al quale lui sta lavorando - del fondale che a Chianciano campeggerà dietro il palco della presidenza. Mihai mi dice che non è quello definitivo, ci deve tornare ancora su, rivederlo, ritoccarlo. Io faccio finta di non aver sentito e svelo la scritta che lo attraversa. È bella, mi auguro resti: “1955-2008: R/esistenza radicale”. Mi fa un po’ di effetto, per non dire che mi commuove. Ho avuto la fortuna di essere coinvolto in tutto il lungo cammino di questo soggetto politico, anche se da posizioni defilate: ma forse una condizione tutto sommato anodina e anonima mi ha consentito di meglio osservare, cercar di capire, elaborare - per me, senza pretesa di volerlo insegnare ad alcuno - il significato complessivo della vicenda, con quel suo intreccio tra “esistere” e “resistere” che viene efficacemente evocato dal motto congressuale.

E allora: innanzitutto, credo sia giusto sottolineare che quello radicale, con la galassia che oggi ne incorpora integralmente i valori, sia il partito italiano più longevo, senza soluzioni di continuità né sconfessioni o pentimenti di sorta. Tra PCI e PD c’è l’abisso del ripudio. Socialisti, liberali, forse anche i cattolici, sopravvivono a decessi, liquidazioni, disastri ideali, salvaguardando più che altro i loro rimpianti. Io non vedo alle nostre spalle rimpianti o tanto meno sconfessioni. Neanche delle sconfitte: fin dall’inizio - avvertitone da Marco Pannella - ero consapevole che nella nostra generazione saremmo restati una minoranza, non saremmo mai approdati al potere. Alcuni radicali, per la verità, vi si sono avvicinati e ne hanno raccolto qualche briciola, però vestendosi con panni altri, quelli che il potere ha loro messo sulle spalle in cambio dell’abiura del passato trascorso nelle file pannelliane: una scelta da “ex” - per carità!, legittima - che ha comportato la rinuncia ad una crescita interiore fatta di arricchimenti, di approfondimenti, di verifiche o anche di costruttive correzioni del patrimonio via via acquisito e accumulato: quella che invece io posso, per me, rivendicare e che ha anzi costituito la sostanza, la spina dorsale della mia persona nel suo percorso esistenziale e culturale.

Con commossa consapevolezza, sento che l’esperienza così stratificatasi nella mia coscienza meriterebbe sviluppi ulteriori, potrebbe offrire la possibilità di straordinarie scoperte. Non potrà essere compito mio, temo. Ma non so se verrà qualcuno che si porrà il problema, o il compito, o l’obiettivo, di penetrare a fondo, con adeguati strumenti, in quel patrimonio. Temo che anch’esso verrà triturato e condannato all’amara damnatio memoriae che ha spinto nel dimenticatoio la grande tradizione laico-liberale del paese e determina quello che Pannella denuncia come il “caso Italia”, una continuità storica da almeno ottanta anni, vale a dire dalla nascita del fascismo, correttamente inteso (oggi sono ancor meno d’accordo con Benedetto Croce e il suo “heri dicebamus”) come la “rivelazione” della realtà italiana nel suo fondaccio, avverso e ostile alla grande ed unica Riforma (religiosa?) costituita dal Risorgimento. In questo cruccio, capisco Ernesto Rossi, con quel suo dichiararsi “un pazzo malinconico”, sfiduciato sulla possibilità di redimere l’Italia (o almeno le sue classi dirigenti).

Dissento su un mucchio di cose dai compagni radicali e (con qualche sorpresa) mi accorgo che anche molti di loro dissentono da me, persino con una punta di stizza rancorosa, ma non fa nulla. Complessivamente presi, i cinquanta anni di militanza attiva (se non sempre attivissima) sono stati, prima, la mia vera università e poi anche la mia scuola di vita, persino quando mi dedicavo, tra ritagli di tempo, fughe e allontanamenti, ad altre attività, ad altre passioni. Spesso mi sono domandato che relazione vi fosse tra queste e la militanza radicale, o almeno come le due cose potessero conciliarsi o convivere. La risposta è stata sempre desolantemente negativa: rapporti niente e convivenza impossibile, come da separati in casa. Eppure, anche queste attività (posso dirlo? letterarie) hanno tratto un enorme giovamento dalla contiguità con quelle politiche sempre troppo invadenti. Ho capito e appreso, nel giocoforza degli incastri, la preziosa metodica della distinzione e dello scambio. È stata una conquista fondamentale, e così ho proseguito (per forse troppo tempo) un cammino che, all’inizio, pensavo sarebbe stato piuttosto breve, di un paio - o poco più - di anni (cominciai solo per dare una mano “tecnica” agli amici che già allora erano “politici”, e anche perché pensai fosse utile e giusto sostenere e provare a far maturare e crescere un leader di livello nazionale: Pannella, ovviamente).

Credo che molti radicali si siano chiesti, nel corso degli anni, che razza di bestia fossi, così diviso e sparpagliato di qua e di là. La domanda diventa, alla fin fine, superflua. Quello che sono stato e sono diventato, in questi laboriosi cinquanta anni, eccolo qua: un prodotto inadeguato ma fedele della vicenda radicale. Perciò, anche quest’anno, andrò al Congresso.

 

Angiolo Bandinelli

(da Notizie radicali, 27 ottobre 2008)


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