Lo scaffale di Tellus
Quando la vita č una “domandina”
24 Febbraio 2006
 

Daniela de Robert

Sembrano proprio come noi

Frammenti di vita prigioniera

Bollati Boringhieri, 2006, pagg. 160, € 15,00



Volete ben spendere quindici euro? Andate in libreria, e chiedete Sembrano proprio come noi, un libro pubblicato da Bollati Boringhieri di Daniela de Robert. Daniela è una giornalista, e il suo è un reportage intelligente e partecipe della realtà carceraria italiana. Libro prezioso, che racconta quello che possiamo immaginare: l’inferno dantesco che sono le carceri italiane, il loro sovraffollamento da cui ogni anno una cinquantina di detenuti “evadono” togliendosi la vita; con il caldo torrido che opprime le celle d’estate, e le finestre non si possono aprire perché i letti a castello lo impediscono; la burocrazia e le regole assurde che tutti sono tenuti a rispettare e nessuno sa dire il perché; il personale che manca, e soprattutto gli educatori e gli psicologi che tanto potrebbero fare per impostare reali percorsi di recupero. Sa bene di cosa scrive, oltre che scriverne bene, Daniela: perché quando smette i panni della giornalista, indossa quelli della volontaria, dentro il carcere; e lo fa da vent’anni. È un’“ingenua”, una di quelle persone che ci credono che ognuno di noi deve fare la sua parte, per cambiare le cose, e dalle cose cerca di non farsi cambiare.

E così nasce Sembrano proprio come noi. Già: Daniela ci dà (o ci conferma) questa letterale “inaudita” notizia: in carcere ci sono uomini e donne, persone: che hanno commesso errori, a volte anche gravi e irreparabili. E che come noi però non vengono trattati. Alla carcerazione – spesso ingiusta, preventiva, che si rivela non meritata – c’è un supplemento di sofferenza, di degradazione, di disperazione cui lo Stato (noi) dovrebbe porre rimedio e sanare. Ma abbiamo il ministro che abbiamo, i governanti che abbiamo, le logiche sono quelle della vendetta e dell’indifferenza nel migliore dei casi.

Ci racconta delle piccole cose, che però bisogna vivere in corpore vili, per rendersi conto di quanto sono importanti e centrali. Si prenda, per fare un esempio, la “domandina”. In realtà il suo nome vero, in carcerburocratese è «Modulario G.G.-A.P.-120 mod. 393 Amm.Penit.»; e già questo fa intuire tanto. Ci sono da qualche parte altri, precedenti 392 moduli dell’Amm.Penit.? E seguiti da quanti altri? Fatto è che in carcere tutti la chiamano “domandina”. Vai a capire l’origine del diminutivo. E poi: se uno chiede di poter incontrare il cappellano del carcere o uno psicologo, di avere un colloquio con il magistrato o di poter ottenere il certificato che attesti il suo essere tossicodipendente, di poter comprare (comprare!) un francobollo, o di far uscire un orsacchiotto di peluche per il figlio che compie gli anni, perché “domandina”? Non fa parte dei diritti di cui è titolare anche, perfino, Totò Riina o il “mostro” di qualsivoglia strage?

Certo, una logica c’è: “domandina” significa certificare subito, anche nelle piccole insignificanti cose, che nulla è scontato, nulla è dovuto, tutto è elargito, tutto è sottoposto a vaglio di giudizio altrui e che dunque di questo il detenuto ne tenga il debito e rispettoso conto.

La “domandina” diventa insomma la metafora della condizione carceraria, e tutto dipende da quel modulo e da chi quel modulo riceve. La “domandina” viene compilata e consegnata, e questo punto tutto diventa scommessa. Controllarne l’iter burocratico non è facile, non è semplice. Si può bloccare per un tempo infinito, a causa di una formalità burocratica; può essere respinta, può perdersi. E mentre qualcuno o qualcosa ferma o manda avanti la “domandina” l’anziana madre malata che si voleva andare a vedere l’ultima volta, nel frattempo muore; oppure il figlio fa gli anni e il regalo pensato non viene recapitato.

Sembrano proprio come noi è un libro che sarebbe auspicabile fosse letto dal signor ministro della Giustizia e da quanti si dicono convinti che il carcere più che luogo di pena e di pene sia un albergo, un luogo di vacanza. E certo la realtà carceraria è complessa e per fortuna variegata, non è solo una cajenna come a Poggioreale o all’Ucciardone. Ma è pur vero che ci sono carceri dove i volontari non hanno il permesso di entrare o dove c’è un solo assistente per tutto l’istituto. Luoghi che non offrono alternative al continuare a delinquere; e, per paradossale che possa sembrare, luoghi che per molti diventano “sicuri”. Daniela racconta per esempio il panico che afferra alcuni detenuti al primo permesso premio; di altri detenuti che chiedono di rientrare; e riflette su quanti suicidi in carcere avvengano alla vigilia della fine pena. Perché c’è la dura, intollerabile realtà del carcere, cui si accompagna la non meno dura e intollerabile realtà del post-carcere, quando senza alternative ci si ritrova con il marchio del detenuto e non si sa come uscire da questa perversa spirale. Certo, ci sono detenuti letteralmente infami, e ci sono poveri diavoli chissà come e perché precipitati in quell’inferno. Ogni detenuto ha una sua storia, una sua tragedia, un suo percorso. Tutti sono stati sfregiati dalla vita, ma molti ci hanno messo del loro per esserlo. Il libro di Daniela racconta tanto e racconta bene. Alla fine, vuoi vedere che là dentro più che sembrare, sono davvero proprio come noi?


Gualtiero Vecellio

(da Notizie radicali, 24 febbraio 2006)


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