Diario di bordo
Valter Vecellio. A proposito di una politica di “governo” del carcere che non c’č
11 Settembre 2008
 

Meriterebbe molta più attenzione di quanta non ne abbia avuta, la denuncia del segretario dell’associazione nazionale funzionari di polizia (ANFP) Enzo Marco Letizia, secondo il quale il braccialetto elettronico auspicato dal ministro della Giustizia Alfano «è solo un goloso business per coloro che devono vendere gli apparati allo stato e per quelle aziende di comunicazione che assicureranno la relativa rete». Per Letizia il piano del Governo per svuotare le carceri ritirando fuori il braccialetto è «null’altro se non un nuovo modo di scaricare sulla pubblica sicurezza i costi della giustizia, in una cornice nella quale, a causa della scarsezza di fondi, alla fine chi pagherà un conto salato sarà il cittadino».

A parte «tutte le riserve sulle funzionalità del sistema e sulla costituzionalmente inammissibile disparità di trattamento tra chi si trova in zone tecnicamente cablate, in grado di sopportare il braccialetto e coloro che non lo sono», dice Letizia, «il braccialetto è tanto inutile quanto suggestivamente finalizzato a far credere che si risolvano problemi che non si ha né la capacità, né le risorse per affrontarli».

Forse esagera, Letizia. Di sicuro piacerebbe saperne di più circa quello che viene definito «un goloso business»; e sarà bene tenere gli occhi aperti. Più in generale, mentre il Governo e la maggioranza suonano la grancassa, sarà opportuno fissare “paletti”.

 

Il primo di questi “paletti” è che la legge Gozzini va difesa con le unghie e con i denti dai ricorrenti tentativi di modificarla e snaturarla. Piuttosto che mettere in discussione una legge di civiltà come la Gozzini, va ripensato l’intero sistema penale e prevedere la pena detentiva per un più ristretto numero di reati. Negare le pene alternative che sono la caratteristica della Gozzini, significa tradire l’articolo 27 della Costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Le carceri italiane soffrono di un cronico sovraffollamento. Il ministro della Giustizia sostiene che l’indulto è fallito; è in buona compagnia: una persona di buon senso come il sindaco di Torino Sergio Chiamparino dice che l’unico risultato ottenuto «è stato quello di liberare gente che poi si mette a rubacchiare e torna in carcere». Sbagliano. L’indulto non è fallito; compito dell’indulto era quello di decongestionare le carceri, e di guadagnare quel tempo necessario per predisporre quelle politiche che avrebbero dovuto impedire il ritorno alla situazione in cui oggi ci troviamo. Se quelle politiche non si sono neppure immaginate, la colpa non è dell’indulto. Decisione e provvedimento giusti, che è stato giusto prendere, e che – anzi – si sarebbe dovuto accompagnare a un provvedimento di amnistia.

Bisogna prendere atto che esiste qualcosa che non funziona a monte. Bisogna tornare a ripensare l’intero sistema sanzionatorio. La pena detentiva va prevista solo per un numero ristretto di reati e prevedere un’articolata gamma di pene che siano diverse dal carcere.

A quanti cianciano di rivedere la Gozzini giova ricordare alcuni dati: i beneficiari della normativa che concede la semilibertà, la detenzione domiciliare, l’affidamento ai servizi sociali sono circa 7.300. Una decina, nel 2007, i detenuti beneficiari delle misure alternative al carcere che l’hanno violata commettendo un reato, la più bassa percentuale dell’ultimo decennio. Chi beneficia delle misure alternative ha una percentuale di recidiva del 19 per cento. Chi sconta la pena interamente in carcere, del 68,45 per cento.

 

Valter Vecellio

(da Notizie radicali, 10 settembre 2008)


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