Piero Cappelli: La Collina della speranza. Rieducazione dei carcerati.
31 Agosto 2008
 

 

Voleva essere un duro, Jmmy. Sognava di fare il gangster nel suo paese, in Ve­neto. Organizzò una rapina in banca, ma fu arrestato. Non aveva ancora 18 anni e finì nel carcere minorile di Treviso. Poi fu trasferito in Sardegna, questa volta nel carce­re minorile di Quartucciu, vicino a Cagliari. Arrivò col sogno di evadere. Riuscì a farsi tra­sferire in una comunità che si chiamava «La Collina». Quando ebbe il permesso di uscire, scappò e si mise a correre tra la gente. Poi si bloccò e tornò indietro. Si accorse in quel momento che la sua vita era cambiata e che anche la sua mente e il suo cuore non erano più gli stessi. Jmmy era un'altra persona. Questa la trama di un libro di Massimo Car­lotto, scrittore noir di successo, e di un film firmato dal regista Enrico Pau. La comuni­tà “La Collina” esiste davvero. Si trova a Serdiana, a 17 chilometri da Cagliari. L'ha fondata don Ettore Cannavera ed è lui che la guida. Nell'82 era parroco a Santa Mar­gherita di Pula, borgata turistica con ville e alberghi di lusso, quando il presidente del Tribunale per i minori, Federico Palomba (che poi divenne presidente della Regione e ora è deputato al Parlamento), lo convinse a creare una comunità per minori su cui pen­devano provvedimenti giudiziari.

In un appartamento di Sant'Avendrace, quartiere popolare di Cagliari, don Ettore cominciò così ad accogliere ragazzi tra i 14 e i 18 anni, con un progetto, e insieme un sogno: far capire ai giovani che qualcuno si occupava di loro e che a loro ci teneva vera­mente. Si pranzava tutti insieme e se qual­cuno arrivava in ritardo lo si aspettava. Nes­suno toccava cibo fintanto che il ritardatario non era arrivato. I ragazzi capivano.

Nel 1993 don Ettore divenne cappellano nel carcere minorile di Quartucciu, una struttu­ra moderna, ben diretta, ma pur sempre un carcere. «Mi resi conto» dice «che i ragazzi, espiata la pena, molto spesso tornavano in carcere». Pensò allora a una comunità per ragazzi più grandi, dai 18 ai 25 anni. An­che perché le pene si scontano nel carcere minorile sino al compimento del ventune­simo anno di età, poi si va nel carcere degli adulti e tutto diventa più difficile. Suo padre, aveva una vigna e fu lì che, con l'aiuto dei volontari dell'associazione Cooperazione e Confronto, educatori, pedagogisti, psicolo­gi e insegnanti, il primo ottobre 1995 nacque la comunità “La Collina” alla quale la Magistratura di Sorveglianza affida i «giovani­adulti» del carcere minorile di Quartucciu come misura alternativa alla detenzione.

La Regione paga cinque stipendi a psicologi, e pedagogisti che lavorano a tempo pieno e si chiamano operatori di condivisione. «Perché i qui» dice don Ettore «non si educa dando ordini, bensì vivendo con i ragazzi». Il resto lo pagano gli ospiti (300 euro al mese) che si ritagliano un piccolo guadagno lavorando all'esterno. Sono loro che autogestiscono la comunità, dal pranzo alle pulizie. I posti sono dodici. In questo periodo i ragazzi so­no undici, quattro di loro sono stranieri. Tre sono stati arrestati per omicidio.

La vita a “La Collina” è regolata da orari rigi­di: ci si alza alle 6 e mezzo e si va a letto alle 22 e 30, dopo una giornata di lavoro. «l primi mesi, in carcere, li senti. Poi fai il detenuto e ti adatti. Qui invece», osserva don Ettore, «le regole sono severe. Non c'è mai un mo­mento libero». Il mercoledì c'è l'incontro con personaggi della cultura, dello spettacolo, dello sport (l'ultimo, in ordine cronologico, è stato Gigi Riva). Il giovedì è il giorno dell'accoglienza. Il ritrovo è in una cappella, ma non nella cappella tradizionale (quella è da un'altra parte), bensì in un luogo nel quale il pavimento è ricoperto di tappeti e di cuscini colorati e, alle pareti, insieme con le immagi­ni della Madonna, ci sono pagine del Corano e simboli di altre religioni. Si leggono brani biblici e si prega, nel silenzio più assoluto.

I risultati arrivano. In carcere la “ricaduta” è molto più alta che a “La Collina”: su 35 ragazzi solo due sono rientrati dietro le sbarre. Gli altri hanno un lavoro e una nuova vita. Don Ettore non si è fermato. Con i soldi della Regione ha costruito un caseggiato per ospitare una comunità di sei ragazzi con sof­ferenza mentale. «Perché» spiega «troppi finiscono in psichiatria e troppi sono i suici­di in carcere».

 

(da “La Chiesa degli ultimi” ne Il Messaggero di santAntonio, Padova, luglio-agosto 2008, pag. 24)


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