Lo scaffale di Tellus
Marco Cipollini: Il mito della realtà (IV)
Giuseppe Pellizza da Volpedo,
Giuseppe Pellizza da Volpedo, 'Il sorgere del sole' (1903-4) 
19 Agosto 2008
 

§ 1. Splendore e miseria della filosofia. La filosofia ricerca, fonda la Verità. Ma se ogni filosofo fonda la propria — e tutti sono persone degnissime di fiducia — i casi sono due: o che uno solo di essi abbia ragione e tutti gli altri torto, o che, tutti avendo la loro buona ragione, non ci sia una sola Verità… Eresia! Vigendo in filosofia l’opposizione tra vero e falso, non vi sono ammesse ambiguità, ovvero una “polifonia” di Verità (plur.). Dunque un solo filosofo ha ragione e tutti gli altri torto? Già, ma quale? Non mi va di accusare di falsità decine di persone degnissime… C’è forse una scappatoia: ogni filosofo ha scoperto una sua fettina dell’unica Verità. Epperò tantissime di queste porzioni risultano tra loro inconciliabili, e tertium non datur. Forse la miglior soluzione è lasciar perdere la Gloriosa Ricerca della Verità…

 

§ 2. Siamo pratici, contentiamoci della multiapparente, transitoria Realtà: del mitico velo di Maia. Qua non ci sono né ostacoli logici né trappole razionali, in quanto la Realtà ha per definizione mille sfaccettature, è un cibreo di fatti (che non si sa bene di cosa sian fatti), e ci danza di fronte fra un ciarpame di veli svolazzanti, e ora ne solleva uno ora un altro, ma mai abbastanza per veder finalmente la Nuda Verità. E se, ci riuscissimo, risultasse una racchia?! E se ci fosse solo quel caotico svolazzio e nessuna spogliarellista dentro? Altra ipotesi: la Verità c’è in mezzo a quei veli esagitati, ma quando li si sfoglia come un carciofo, con l’ultimo sparisce anche la Verità… Alt! Qui sta sparendo troppa roba. Passi per la Verità, ma la Realtà non si tocca! Altrimenti qua che cogitiamo? Ergo sumus, che diamine! Giova tornar da capo, alla filosofia.

 

§ 3. Non rammento chi scrisse che l’intera sua storia non è altro che un commento a Platone. Confesso che le mie colonne d’Ercole, o meglio quei monconi fatti di frammenti residui, sono Parmenide ed Eraclito, questi due padri venerandi e terribili, contrapposti come le rocce cozzanti entro cui transitarono gli Argonauti. Ma è poi vero che cozzano tra loro? Macché, quei due se ne stanno là belli fermi, d’amore e d’accordo, come gli stipiti di una porta. Per rigore logico, dovremmo optare per l’uno o per l’altro. Ma io detesto il rigor (mortis) logicus, ovvero la visione monoculare e riduzionistica di qualsiasi ciclope dogmatico, ultimamente quello che abita la caverna scientifica. Si aggiunga che, come scrissi nel Decalogo di poesia (vedi Tellusfolio), non mi è dato di pensare che in modo contraddittorio e armonico, e questo, ovviamente, anche all’interno della singola poesia (sì, occorre che ri-leggiate il Decalogo). E dunque Parmenide per mano ad Eraclito. Tutto il restante filosofare non ne è che una chiosa richiosata per le lunghe.

 

§ 4. E ora ritorniamo alla Realtà, perché almeno questa, sia illusoria quanto si vuole, ma c’è. (E chissà che anche l’illusione non sia illusoria!) “La verità effettuale della cosa”, scrisse il vecchio Nicolò; e intendeva la Realtà incorniciata del Rinascimento. Forse la cosa è effettualmente meno vera di com’egli la pensava… Il punto debole della Realtà è — oltre al suo divenire che continuamente scrive e cancella tutto sotto i nostri occhi e, alla fine, anche i nostri occhi — il suo punto debole, dicevo, è che le nostre individuali percezioni di essa non assicurano nemmeno noi stessi, perché quanto ci appare certo e reale ora, un attimo dopo lo riteniamo illusorio; e non solo, a volte quanto percepiamo è simultaneamente reale e illusorio, come se l’occhio destro ci mostrasse una Realtà diversa dall’occhio sinistro (in effetti è così). Ma come il senso prospettico ci è dato dai due occhi, questa visione stereoscopica è perlomeno più sottile e veritiera di quella monoculare. La cosa apparente o, per meglio dire, la multiapparenza della cosa, insomma c’è (anche se non ci resta).

 

§ 5. E, ripensandoci, quest’esserci e non restarci non è ben rappresentato dal mitico velo di cui sopra, per cui tutto è uno svolazzio illusorio dietro cui si cela la “cosa vera”. E non per dare ragione alla scienza (monoculare), che esige fondamenti di calcestruzzo, ma così risicati che non lasciano il minimo appoggio al Senso della Nostra Vita, e scusate se non possiamo farne a meno. No. La “cosa vera” non sta dietro una sua apparenza reale e illusoria, ma si rivela (si svela) proprio così com’è, antinomica e apocalittica, alla nostra visione (ottica + concettuale) che però (per sua natura + cultura) la percepisce fatta di mille contrasti insanabili, e dunque inaccettabile, specie a una logica riduzionistica. Questa Realtà irreale è dunque causata dalla nostra stessa visione, che di tale Realtà è (irrealmente) parte, e che non può non deformare la Verità ch’essa crede di percepire.

 

§ 6. Non ci resta che oltrepassare gli stipiti parmenideo ed eracliteo della suddetta porta e avviarci per un viottolo sinusoidale che non si sa dove conduce… Guarda un po’, presto ci ritroviamo nel verde e rigoglioso Paese della Non-Contraddizione, dove il pugnace Divenire eracliteo, nel cui flusso e riflusso siamo sciabordati, è, se veduto dall’esterno e dunque nella sua totalità, il globoso Essere parmenideo. Tutto qui? Com’era semplice! Forse troppo semplice? Stiamo lì dubitosi e un poco ebbri a tale epifania. Ed ecco un coniglietto bianco ci saltella incontro e, togliendosi un berrettuccio di muschio, ci saluta con un: “hic et nunc!”. E lo ripete di continuo balzellando qua e là. Gliene chiediamo il senso, e la candida bestiola si ferma sulle due zampe a spiegarci che sta affermando sia l’aspetto antitetico e dinamico sia quello sintetico e statico dell’Essere, che sono la medesima e stessa cosa. Osiamo richiedere se non faccia, ehm, un po’ di confusione; e quella, impettita e un pochino indispettita, cita solennemente Yeats: «How can we know the dancer from the dance?» Già, come possiamo distinguere il danzatore dalla danza? E riprende hic et nunc a saltellare.

 

§ 7. Come poeta — almeno tale qualifica inflazionata mi sia concessa — da molto tempo manipolo parole che trasmettono dell’essere una visione stereoscopica. Questa contraddizione armonica risiede sia nel singolo testo sia nell’insieme dei testi di un singolo autore, sia, tantopiù, in tutti i testi di tutti gli autori, passati presenti e futuri. La Poesia, che è sia parte sia specchio totalizzante della Realtà, consiste di tutti quei testi, miriardanti un’unica luce: frammenti di specchio in sé armonicamente contraddittori, e proprio per questo capaci di riflettere una Verità antinomica. La vetusta questione dell’Uno e del Molteplice si risolve semplicemente — com’è ardua la semplicità! — nell’immagine della medaglia, che ha due facce; e che si guardi da una parte o dall’altra, è sempre la stessa: da una parte c’è un’Effigie, la molteplice Realtà; dall’altra un’Epigrafe, la Verità. Non si possono scindere, così che tutte le Realtà contraddittorie sono vere, e la Verità, per essere tale, dev’essere reale, ovvero antinomica. (Solo ai mistici la medaglia appare com’è effettivamente: di cristallo.)

 

§ 8. Un leggero cerchio alla testa, e forse lo sbuffare del lettore, m’induce a smettere… Dunque Parmenide ed Eraclito, né l’uno senza l’altro. L’Essere e il Divenire, queste due parole tra loro oppositive, dobbiamo considerarle sessualmente complementari per ben vedere, cioè da lontano, il “mondo” in cui veniamo frullati. Chissà, in una dimensione ulteriore — io ci conto! — disporremo di un’unica parola che le focalizza ambedue. Ma allora ogni contraddizione dovrebbe essere abolita, e forse con essa la poesia l’arte la filosofia la religione, in quanto queste e altre opere di ricerca sarebbero, come suol dirsi, superate. E fuori da ’sto marasma non resterà — si spera — che laudare gaudiosamente il Principio dell’Essere, senza nemmeno dover scegliere tra la polifonia (eraclitea) e il gregoriano (parmenideo).

 

§ 9. Ma intanto siamo hic et nunc, e auguriamoci che hic manebimus optime, come disse anche un’anima superiore di fronte alla ghigliottina. Qualsiasi attività pratica e conoscitiva dell’uomo, come affermò Vico, inizia da un mito, e dunque, prima di ogni altro, noi dobbiamo fare nostro il mito di una Realtà che non è monolitica, ma, nella nostra iridescente percezione di essa, il punto di scintillazione di mille Realtà diverse e contraddittorie, in quanto manifestazione di una Verità antinomica. È questa la crux, ma anche la lux, l’interfaccia per poter accedere all’altro lato della medaglia. La poesia può aiutare in questo sforzo conoscitivo, perché è questa la sua condizione normale, lo stato mentale in cui da sempre essa opera. Chi la riducesse, al pari dell’arte, a una mera questione estetica, il meschino rimarrebbe murato nel carcere di una Realtà senza Verità. Da troppo tempo ne sappiamo qualcosa.

 

§ 10.

PARMENIDEA

ERACLITEA

Lungo il fiume luminoso di primavera.

E mi chiesi se l’universo che vedevo

non fosse stato mai, e perché era quello

e non altri, e perché invece del nulla c’era

di fronte a me, con me, quanto vedevo

[intorno.

Tutto era per caso? Turbato chiusi gli occhi,

e la parola Nulla invase la mia mente,

uominifiumerondinicollinemonti

di colpo aboliti furono in una quieta

vertigine disumana… Spalancai gli occhi,

e i colli e il fiume apparvero e i pioppi, fruscio

sfarfallante, ed i monti celesti nel cielo

e rapide rondini in volo e sulla terra

uomini lenti al lavoro, tutto fu tutto:

ma le rondini non scivolavano in cielo,

come arabeschi su una cupola di smalto

era ogni fotogramma una nuova creazione,

non si annullavano l’uno con l’altro i gesti

degli uomini, attuazione di un pensiero eterno,

la corrente del fiume scintillava ferma,

simile a un cristallo ferito dalla luce,

le colline e i monti sostenevano il cielo

senza sforzo, luminosamente tranquilli,

pennelli di vento dipingevano l’erba,

la rugiada brillava come mille stelle e

specchiava ogni goccia mille generazioni...

Io fui il perno vivo della sfera dei mondi

nascosti dal velame abbagliante del sole,

e i miei prismi carnali fissarono beati

l’essere nel culmine della sua potenza,

così per sempre, come se il filo dei giorni

si fosse, inizio e fine, in me aggomitolato.

Ancora del cielo l’immensità ricordo…

Seduto sulla riva erbosa del mio fiume,

guardo le acque che scorrono torbide d’oro:

le anatre galleggiano come variopinti

pensieri sulla mente, la garzetta lattea

si specchia immobile nel suo riflesso eterno,

l’erba dovunque l’erba è allietata dal soffio

vastissimo e delicato degli orizzonti…

E scorgo nell’erba, lì ai piedi, la carcassa

di un passero con le zampette rattrappite,

e un assiduo serpente di formiche entrarci

come in una miniera: di colpo quel filo

vivente che s’incruna nella morte avvolge

la terra e il cielo, si alza il sipario ed è tutto

disfacimento, un gioco perpetuo di zanne…

Le candide nubi covano oscuri tuoni,

la corrente discioglie i monti e se ne nutre,

l’uomo le pecore paternamente guida,

poi spellate e spezzate, la rondine aerea

i suoi piccoli imbecca d’insetti cresciuti

nella putrefazione di piante o di bestie,

piante che fameliche affondano radici

in umide catacombe di mille autunni,

bestie che strappano l’erba e strider si sente

di dolore la verde immensità piagata…

Giro lo sguardo e ovunque non vedo che

[guerra…

Tutto è sopraffazione, per cui il verticale

si disfà orizzontale in geologia di morte…

La bellezza è figlia dell’orrore, d’inganno

profumano i fiori, non c’è pietà in un seme,

vita genera morte che genera vita…

E solo c’è pace quando ciò che a noi resta

scivola al di fuori degl’immani ingranaggi

della galassia sconsolata, sospirando.

 

 

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