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“I docenti diventano tutti matti o solo i matti diventano insegnanti?” 
La sindrome da “burnout” in ambito scolastico. Simona Borgatti intervista Vittorio Lodolo D’Oria
11 Luglio 2008
 

A settembre, con la ripresa delle scuole, tutti i docenti italiani sono obbligati a sentire i soliti commenti: “Eh, ora che hai fatto i tuoi tre mesi di vacanza, non ti lamenterai ancora, vero?” Precisazione necessaria: i docenti d’estate stanno a casa due mesi, dal primo luglio al 31 agosto. In questo periodo devono inserire i 36 giorni di ferie che spettano loro. I giorni che rimangono sono giorni “a disposizione” in cui il dirigente su base collegiale, può inserire attività lavorativa. Lo stesso vale per Natale e Pasqua: i giorni in cui si sta a casa sono quelli canonici in cui stanno a casa tutti, ma si può essere comunque richiamati in servizio. Solitamente non succede, i tre mesi annuali rimangono, ma è giusto dare all’opinione pubblica corretta informazione. Sono tanti due mesi di vacanza, consideriamolo però come l’unico benefit, l’unico premio produzione che l’insegnante, per contratto e in termini pecuniari, non possiede. Poi c’è il lamento. È vero, i docenti italiani si lamentano tanto e spesso e non dovrebbero farlo perché stanno a casa tre mesi. I mugugni avvengono con i propri familiari, con i colleghi tra le mura scolastiche o con gli amici che insegnanti non sono e che hanno un bottino di ferie esiguo. La questione, potrebbe essere liquidata con continue battutine che portano i professori a crisi isteriche, invece è molto seria. Innanzitutto gli insegnanti lavorano con “materiale umano” il quale per non andare in corto circuito, specie i bambini, ha bisogno di avere più pause. Ma c’è una questione, a mio avviso ancora più importante che fa scattare il lamento: la crisi d’identità sociale dell’insegnante del 2008; le maestre sono considerate e trattate come delle baby-sitter statali o delle mammine a seconda dei casi, tutti gli altri, ma anche qualche maestra, degli statali con 5 mesi di ferie, illicenziabili o in alternativa, considerando le scuole delle aziende, degli impiegati di scuole private piegati alla volontà dei genitori e dei ragazzi, la famosa “utenza”, termine prettamente aziendale. Guai poi se i docenti ammettono di svolgere questa professione senza la famosa vocazione. Allora si viene considerati dei “paria” della società italiana e si può solo pensare a come meglio fustigarsi per avere diritto ai tre mesi di ferie senza possedere l’inclinazione.

Personalmente, ma il mio giudizio è opinabile, ritengo che l’insegnamento non sia una vocazione, ma una professione educativa e i docenti dei professionisti. Nessuno, e qui l’opinione non dovrebbe contare, si rende conto invece che l’insegnamento è una professione a rischio burnout, a rischio di 'scoppio psicologico'. «È una helping profession. Come il medico, l’infermiere, lo psicologo, la badante. Tutte queste professioni sono caratterizzate dall’alto coinvolgimento emotivo-relazionale e quindi sono molto usuranti». Molti pensano che l’usura sia legata solo ai turni notturni o in fabbrica, ma a quanto pare non è così. Il parere è molto autorevole e mi arriva dal professor Vittorio Lodolo D’Oria, medico ematologo e componente del Collegio Medico della ASL Città di Milano per il riconoscimento dell’inabilità al lavoro per causa di salute, che prosegue: «Mi arrivavano tantissime domande d’inabilità lavorativa proprio dai docenti. Iniziai quindi a chiedermi se solo i matti facevano gli insegnanti o se gli insegnanti diventavano matti. Dagli studi che feci e che sono raccolti nel mio libro Scuola di follia (Armando editore), giunto alla terza edizione, arrivai alla conclusione che è proprio la tipologia lavorativa a far andare in corto circuito la testa dei docenti. Così iniziai ad occuparmi di D.M.P. (Disagio Mentale Professionale), appellativo esatto della sindrome burnout, a Milano, Torino e Verona. Purtroppo, a livello nazionale non ci sono ancora studi sul fenomeno».

Chiedo quali siano i sintomi di questa sindrome.

«Innanzitutto», prosegue il professore, «il burnout appartiene alla psicologia, esula dalla sfera delle diagnosi psichiatriche. L’opinione pubblica ritiene che un lavoro semplice, poco impegnativo per il monte orario e con appunto i tre mesi di ferie all’anno, possa generare al massimo piccoli contrattempi. I docenti sono i primi ad avere questa opinione quando si avvicinano alla professione e a non ammettere la sindrome quando invece “l’hanno presa” dando la colpa del loro malessere a colleghi, superiori e genitori. La refrattarietà ad affrontare a viso aperto il disturbo li porta a non avere più capacità critica, ad isolarsi; scatteranno aggressività, manie di persecuzione, la fuga dagli impegni con evidenti ricadute sull’utenza».

Ma che cosa può scatenare queste reazioni psicologiche così forti? Lavorare con i ragazzi non è forse la cosa più bella?

«Non ci sono solo i ragazzi o i bambini. La scuola è un ambiente complesso che viene facilmente idealizzato dall’opinione pubblica. Innanzitutto la scarsa considerazione sociale decretata da bassi guadagni in una società fondata sul consumismo e sulle apparenze. Molti pensano che 1.220 euro netti (paga al primo anno di ruolo nella primaria) per 24 ore lavorative settimanali sia tantissimo perché ragionano in termine di quantità lavorativa e non di qualità. È un errore. Per cambiare lo stereotipo sui docenti basterebbe, che per soli tre giorni, manager e genitori stessero dietro a una cattedra di qualsiasi scuola nei quartieri a rischio, le cosi dette “scuole di frontiera”, allora sì che l’opinione inizierebbe a ricredersi sulla facilità di questa professione. Se poi pensa che in un D.M. del 1998 si affidava la formazione dei docenti a Scientology, si capisce quanto la scuola venga considerata con serietà dalle istituzioni. Ma anche le difficoltà di comunicazione tra colleghi, tra docenti e genitori ormai sindacalisti dei figli sui quali proiettano frustrazioni e aspettative e tra docenti e dirigente; le educazioni più svariate (civica, sessuale, alimentare etc.) che la scuola si prende in carico per completare l’offerta formativa e che invece dovrebbero competere alle famiglie; l’arrivo di studenti stranieri e disabili, ministri e riforme che vanno e vengono una diversa dall’altra, la scuola come azienda, le nuove tecnologie che impongono veloci cambiamenti».

Chi è considerato più a rischio?

«I docenti con tanti anni di anzianità, quelli che all’inizio avevano la cosiddetta vocazione e che ora non si ritrovano più in una scuola-impresa, gli idealisti, le insegnanti in menopausa per le quali il rischio di burnout aumenta di 5 volte rispetto al periodo fertile, i precari storici che continuano per anni a non avere continuità didattica possedendo invece molta esperienza, ma anche chi ha una scarsa autostima o chi è un perfezionista esasperato. Delle docenti in menopausa ce ne stiamo accorgendo ora perché prima, a causa delle pensioni baby, non c’erano molti insegnanti che superavano i 50 anni di età. Ma allora perché erano disposti a lasciare il lavoro con una pensione da fame? Burnout non ancora riconosciuto?»

E infatti da un’indagine del Sole 24 ore del 2006 è risultato che i docenti italiani sono i più anziani d’Europa (età media 50 anni) con le richieste di pensionamento aumentate del 40% mentre i precari sono in crescita raggiungendo, al Nord, quasi il 22%.

Alcuni dei sintomi del D.M.P., mi racconta Lodolo D’Oria, sono stanchezza cronica, senso di fallimento, incapacità a concentrarsi, crisi di ansia e di panico, mal di testa, coliti, rigidità di pensiero… i segni invece sono apatia, assenteismo, pessimismo, conflitti con l’autorità, trasferimenti frequenti, accanimento sul disabile. Ma il professore mi racconta che la gravità della situazione è testimoniata dall’aumento dei suicidi tra insegnanti. In Francia, perché in Italia non si sa nulla in quanto non è mai stato condotto uno studio in merito che dovrebbe essere fatto. «Il burnout», prosegue Lodolo D’Oria, «ha una struttura a piramide. Alla base ci sono i docenti in buona salute e occorre preservarli dal logoramento psicofisico formando, ad esempio, i nuovi insegnanti in modo completo mettendoli al corrente di ciò che potrebbe capitare loro; in questa fase i dirigenti dovrebbero fare prevenzione e i docenti una attenta autovalutazione. Nella fascia intermedia ci sono i docenti in situazione di burnout per i quali ci dovrebbero essere strutture di ascolto, informazione, condivisione e counseling; l’obiettivo è quello di non isolare il docente, di non lasciarlo solo. Infine c’è l’apice ovvero i docenti con una psicopatologia franca che vanno assolutamente curati con interventi medici specializzati per poi reinserirli in ambito lavorativo».

A questo punto mi sembra fondamentale il ruolo del dirigente. Cosa fa e cosa dovrebbe fare un dirigente in caso di D.M.P.?

«Solo lo 0,7% dei dirigenti riconosce e sa gestire il D.M.P. Gli altri, oltre a seguire un corso inerente e a inserire la D.M.P. nelle linee guida della 626 sulla sicurezza per i rischi psico-sociali della professione, non devono né temporeggiare né scaricare il problema su altre scuole spingendo il docente all’utilizzo in altre mansioni o al trasferimento. La prognosi peggiorerebbe e potrebbero anche esserci ricadute sugli alunni. Il docente dovrebbe essere inviato alla Commissione Medica di Verifica, ma non è cosa semplice in quanto la stesura di una relazione adeguata richiede notevole professionalità e capacità descrittive. Inoltre ricordiamo che i medici di famiglia non conoscono ancora questo disturbo. L’unica cosa è appellarsi alla Commissione Medica di Verifica. All’interno delle scuole bisogna fare informazione sui rischi psicosociali degli insegnanti attivando corsi di formazione con lo scopo di rompere il tabù sul disagio psichico. Quando svolgo formazione, su richiesta, lo stereotipo sull’insegnante cade e viene voglia di parlare del proprio disagio a testa alta».

A testa alta. È così che dovrebbero reagire gli insegnanti, a credere per primi in loro stessi e nella professione che hanno scelto o che, perché no, è capitata. La sfida verso l’opinione pubblica è aperta, ricordando che sono loro, i docenti, buona fetta di quella opinione pubblica. “Tre mesi di ferie?” “Sì, me li merito proprio. Altrimenti ne va del mio benessere psico-fisico con ricaduta sui miei studenti che sono poi i tuoi, i vostri figli”. E di maestre che imbavagliano bambini o professori immortalati su YouTube, casi estremi resi sensazionali dai media, potremmo farne volentieri a meno.

 

Per informazioni e contatti:

Vittorio Lodolo d’Oria

vittorio.lodolodoria@fastwebnet.it

 

Simona Borgatti


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