Telluserra
Luca Traini: "La genesi". Uno stravagante commento con Leopardi di mezzo.
16 Settembre 2008
 

"Menahem da Recanati: commento alla Genesi",  traduzione di Tiziana Mayer, Aquilegia Edizioni, Settembre 2005.
Dunque, Tiziana, non ci fu solo Leopardi a Recanati: chiuso, costretto, isolato.
O prima ancora Lorenzo Lotto, nomade, che dipingeva lo spavento felice di Maria e di un gatto.
Due secoli oltre c’erano stati anche i pensieri angelici di Menahem, stesso popolo di Maria, che non pronuncia Dio ma D-o, come la prima nota musicale, quando contempla il primo verso del primo capitolo del primo libro della Torah (che inizia con la seconda lettera dell’alfabeto).
“Bet”.
Che Marche affollate le mie Marche: come ogni terra di confine che si rispetti!
E a Fermo, la mia Fermo, qualche anno dopo, avrebbe trovato un principe un principio o l’Intelletto Attivo, a Fermo, il poeta
Immanuel Romano, distillando e diluendo nella Bibbia un passato e presente di amarezze.

Tu, Tiziana, traduci dall’ebraico, dalle Marche, dal caleidoscopio della diaspora Immanuel, Menahem per la tua casa
editrice che porta il nome di un fiore, Aquilegia (la cui esistenza mi fu rivelata da un grande amore), che ha sede a Desio ma io la chiamerei Desìo, come in antico il Desiderio che ti muove, così come lo scriveva Dante, forse in contatto col Romano, certamente influenzato dalla Qabbalah, originata da Ezechiele che vide JHWH in forma umana splendido come elettro “dalla cintola in su” e divorò il suo libro già scritto, ne addentò le parole, ne masticò le lettere, così come le ruminarono per secoli stirpi di rabbini perché mangiare non basta, perché per leggere dentro, in profondità, bisogna avere sapienza, sapore, pazienza
e quindi aver sofferto, soffrire perché non si dà interpretazione senza portare un peso, senza una distanza nello spazio nel tempo vissuta come lacerazione, nostalgia di sangue che rende viva la memoria e dà testarda fiducia nel futuro.
Eh, già, sennò perché si legge, si scrive, si pubblica, si stampa nero su bianco, colori? Perché parlare di un Infinito che appare Nulla e proprio per questo è Tutto? (Ma tu, Menahem, avrai visto e scritto da quel colle dal nome ebraico dove l’
Infinito sarebbe riapparso 500 anni dopo?)  Perché l’Uno, avendo in sé il Nulla, dovrebbe essere “quel Non-essere superiore da cui l’Essere medesimo si genera“? Perché dovrebbe rispecchiarsi nel 10, dice il Levitico “numero sacro al Signore”, come il volto di uno che si riflette nell’acqua attinta dall’incavo delle mani? Perché la radice “sfr” significa “contare” “raccontare” “rendere conto” di un numero infinito  - quanto? - e poi “sefirah” “intervallo temporale” - quando verrà il momento? quando sarà tempo? quando? - e infine “sefirot”, prima ineffabili voli d’angelo fra trono divino e mondo e poi “emanazioni” (10, ricordalo Luca, 10, disegnabili come un albero di 3 rami, e non più 7, che è il numero di un semplice ciclo quotidiano, i
giorni di una settimana - e oggi è sabato)?



UNA POSSIBILE RISPOSTA A TANTI PERCHE’: Con un’operazione teurgica, vorrei resuscitare Giacomo e Silvia. E farli sposare. Così saremmo contenti in 3.

Vedi, Menahem,
ero più vicino a Imanuel, a Fermo, in quella sua apparente fragilità, e nelle tue minuziose certezze sono caduto come in un rovo
intricatissimo. Poi ho visto le more. E ne ho fatto  scorpacciata.

L
La “elle” è il piede dell’autore
U in bilico sull’orlo del caos, della grande voragine rappresentata dalla “u”
C ma grazie all’apertura della “ci”, al suo gancio, al fatto che è la terza lettera  dell’alfabeto
A resterà attaccato alla sua origine, alla “a” della vita, dell’amore, del principio ispiratore.

 

Luca Traini









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